Per comprendere ciò che è accaduto in Egitto occorre evitare di cadere nella trappola della narrazione basata sugli assetti “religiosi”. Il conflitto è infatti tutto politico e non ha nulla di religioso, a meno di non cedere alla lettura dei Fratelli Musulmani che sin dall’inizio hanno tentato di impostare il discorso in questi termini.
Paolo Gonzaga
Questo si può constatare anche dal fatto che la campagna Tamarrud è animata da attori molteplici che comprendono anche parte dello schieramento islamista. Infatti, oltre ai gruppi rivoluzionari organizzatori, partecipa alla campagna parte dello schieramento salafita, la salafiyyah “scientifica” di Hizb al Nur e la componente riformista uscita dai Fratelli Musulmani dopo la rivoluzione del gennaio 2011, quando l’attuale dirigenza, tra le più radicali della storia della Fratellanza, allontanò progressivamente tutti gli esponenti e militanti riformisti.
Il “peccato originale” di Mursi risale a questa radicalizzazione dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani. Mursi ha fallito infatti perché ha dato l’impressione agli egiziani – molti dei quali lo avevano votato solo per evitare il ritorno di Shafiq – di non essere il presidente di tutti gli egiziani, ma di essere vincolato dalle decisioni di un gruppo misterioso come la Fratellanza, con membership segreta, giuramenti di fedeltà e obbedienza alla Guida Generale della confraternita. Infatti al primo turno prese 5 milioni di voti, raggiungendo per poco il ballottaggio.
Solo grazie alla divisione del movimento rivoluzionario su altri due candidati: il nasseriano Hamdiin Sebbahi, terzo classificato, e l’ex-Fratello Musulmano, simbolo dell’ala riformista, Abul-Futtuh, Mursi al secondo turno prende 13 milioni di voti, incassando l’appoggio di gran parte del popolo egiziano, che pur non amandolo confidava nella formazione di un governo rappresentativo delle istanze della rivoluzione del 25 gennaio.
Il governo di Mursi ha frustrato in un solo anno tutte queste aspirazioni, preferendo fare accordi con l’apparato militare, unendosi alla repressione dei movimenti sinceramente rivoluzionari che proseguirono le mobilitazioni. Mursi formò un governo di “tecnocrati” per metà di area islamista e per metà espressione dell’apparato militare, che generò un primo rigetto da parte di tutte le aree protagoniste della rivoluzione.
Il punto di non ritorno in cui Mursi perse ufficialmente a livello popolare la sua legittimità democratica, è a fine novembre 2012, quando, con un decreto presidenziale, decise di avocare a sé il potere giudiziario pur detenendo già il legislativo, per l’assenza del Parlamento sciolto, e il potere esecutivo, che gli spettava in quanto Presidente. La concentrazione dei tre poteri fondanti dello Stato nelle mani del Presidente lo sottopose all’accusa di “golpe bianco”, ma gli conferì la possibilità di imporre una Costituzione autoritaria, ignorando ogni voce dissidente, incluso il 10% di egiziani copti.
Mursi non ebbe cura del consenso delle minoranze, pensando invece ad ammorbidire l’Esercito, mai uscito di scena. I Fratelli inserirono infatti nella nuova Costituzione la garanzia di completa autonomia dei militari. Una Costituzione definita “illegittima” da tutte le opposizioni e dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, al cui referendum ha votato solo 32% degli aventi diritto, e il 35% ha espresso la sua contrarietà. Da quel momento seguirono manifestazioni imponenti che ricomposero per la prima volta tutte le opposizioni. Nel dicembre 2012 si susseguirono manifestazioni con violentissimi scontri e una polarizzazione estrema. Le dimostrazioni pubbliche si concentrarono contro la “ikwhanat el dawla”, la “fraternizzazione dello Stato”, cioè il tentativo dei Fratelli Musulmani di islamizzare lo Stato e la società, mediante l’emanazione di una Costituzione “illegale”, l’occupazione di tutte le cariche pubbliche e la repressione degli oppositori. Un caso estremamente simbolico rivelatosi un boomerang per Mursi, è il tentativo di arresto del fenomeno mediatico Bassem Yussef, comico diventato famosissimo per la sua satira irriverente.
Le dimostrazioni, intense e continue sino al febbraio 2013 furono represse con l’ausilio di corpi militari irregolari, formati militanti dei Fratelli Musulmani, portando molti ex-elettori “di centro” ad allontanarsi dalla formazione islamista.
La campagna Tamarrud inizia a fine aprile 2013 e vi partecipano i gruppi della rivoluzione del 25 gennaio, con altri neonati movimenti. Tamarrud si prefigge lo scopo di raccogliere 15 milioni di firme, di sfiducia a Mursi, chiedendogli elezioni anticipate o dimissioni. L’iniziativa ha un inaspettato successo, gli attivisti creano sezioni in ogni governatorato, raccogliendo adesioni così composite da far emergere un profondo cambiamento: non è più la sola parte laica e militante a lottare per la realizzazione degli obiettivi della rivoluzione, ma si uniscono settori popolari scarsamente politicizzati, che per la prima volta trovano una forma di partecipazione diversa dalle pericolose manifestazioni cui aveva solo assistito. I Fratelli Musulmani comprendendo il successo della mobilitazione, avviano un’opera intimidatoria contro chi intenda manifestare il 30 Giugno, giorno scelto dal Tamarrud per la grande manifestazione a coronamento della campagna. L’escalation è progressiva e sistematica, la settimana precedente a un convegno pubblico per la Siria, trasmesso in Tv, gli egiziani possono vedere l’ex-terrorista delle Al Jama’a al Islamiyya, sheykh Abdel Maqsud, incitare al “jihad contro i miscredenti e i cristiani che scenderanno in piazza il 30 giugno”.
Il 30 giugno le firme raggiunte sono arrivano a 22 milioni. Gli egiziani, insofferenti per la situazione economica, per le prevaricazioni continue e il dilettantismo mostrato dal governo a guida islamista, manifestano a milioni in tutte le città e villaggi. Questa volta non solo le metropoli si rivoltano, ma anche le campagne e l’intervento dei militari successivo è accolto con sollievo.
L’elemento centrale che non sembra essere stato colto da molti commentatori occidentali, è la mobilitazione eccezionale e senza precedenti, che prova ad inaugurare un tipo di democrazia diretta, revocatoria. I gruppi che costituiscono l’”hard-core” dei “ribelli”, sono stati in piazza contro il Consiglio Supremo delle Forze Armate durante la transizione, non hanno dimenticato e non intendono delegare ai militari.
Ciò di cui discutono in molti in Egitto, quasi scomparsi dal dibattito attuale nei nostri paesi, è la potenza costituente dimostrata dal popolo egiziano, che dopo aver cacciato Mubarak, è riuscito ad esautorare il secondo presidente, riprendendo l’iniziativa non appena egli si è posto fuori dalla legalità democratica. La ribellione egiziana, in grado di sfiduciare un governante qualora una parte maggioritaria del popolo lo ritenga opportuno, può essere una forma di democrazia che prefigura nuove strade per nuove forme di partecipazione dal basso, in anni in cui in tutto il mondo si discute di crisi della rappresentanza e di democrazia partecipativa.
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