Eboli, San Nicola Varco, Battipaglia: la crisi fa crescere la disoccupazione maschile e riporta le donne nei campi. Ma qui si “scontrano” con i braccianti stranieri. «Il lavoro c’è», spiega M., 42 anni, tre figli e un marito imbianchino che non riesce più a portare a casa un euro. «Però lo danno a loro. Tra me, che sono italiana e donna, e loro che sono stranieri e uomini, preferiscono loro. Perché si fanno pagare meno e sono più forti. Il lavoro c’è, ma se lo prendono loro». In queste parole c’è tutto lo scontro in atto nella piana del Sele, tra donne “locali” e braccianti di importazione, che nulla sanno di contratti di categoria e delle lotte che hanno caratterizzato nel passato questo territorio. «È complesso spiegare quanto da queste parti il concetto di identità possa essere legato alla terra. Ma se non partiamo da qui rischiamo di non capire il conflitto che si va delineando». A parlare è Loredana Marino, segretaria provinciale di Rifondazione Comunista a Salerno, ma anche etnomusicologa e attivista impegnata nella difesa dei diritti dei lavoratori migranti. «C’è un problema di lavoro e un problema di appartenenza. Qui, come in molti altri posti, la crisi sta facendo crescere la disoccupazione maschile. Gli uomini lavoravano, spesso a giornata, nell’edilizia. Ora di lavoro ce ne è pochissimo e quindi sono tornate a lavorare le donne, mogli e figlie, nei campi, dove incontrano la concorrenza dei lavoratori immigrati. E questi ultimi diventano i nemici, i rivali».
Uno degli elementi che rende il contesto ancora più nebuloso è dovuto agli effetti della “riforma Fornero” sull’innalzamento dell’età pensionabile. «Il sistema in agricoltura funziona ancora sulla base di un principio secondo cui bisogna lavorare almeno 51 giorni l’anno per maturare dei contributi. Ma con la riforma, occorrono 40 anni di versamenti per poter andare in pensione. 51 giorni non corrispondono neanche ad un quarto dei contributi necessari per avere un anno di contributi pensionistici. Teoricamente le donne dovrebbero essere regolarmente assunte per 160 (centosessanta) giorni. Ora, a parte che quaranta anni di lavoro, soprattutto nelle serre, fra pesticidi e agenti chimici, spaccandosi la schiena, ti distruggono, accade qualcosa di peggio». «Ma se io voglio avere i famosi 51 giorni, non ho che una strada», spiega E., che a differenza di M. un lavoro è riuscito a trovarlo. «Devo accettare di lavorare in nero per almeno 6 mesi. Ed è quello che faccio. O accetti queste condizioni o rinunci a lavorare. Se non ci fossero gli stranieri avremmo più possibilità di contrattare. Ma loro, accettando tutto, hanno fatto saltare tutte le regole».
Lo sfruttamento dei braccianti non è una novità da queste parti, ma rispetto al passato sono cambiate le modalità. «Dopo le lotte degli anni Sessanta c’è stato un periodo di silenzio in cui a garantire il controllo di chi lavorava erano “le caporali”, donne che guadagnavano sul lavoro di altre donne, decidendo chi aveva diritto a lavorare e chi no», spiega Marino. «Oggi i caporali sono uomini e stranieri, provengono dagli stessi paesi dei braccianti e in genere non sono percepiti come presenze minacciose, bensì come utili e un po’ privilegiati mediatori».
Uno dei settori su cui si è riusciti a creare un minimo di intervento di supporto è quello sanitario. Un gruppo di medici volontariamente cerca di garantire, ai lavoratori migranti sparsi nelle campagne della Piana un minimo di assistenza. Uno di loro, Franco Musumeci, racconta delle condizioni in cui sono costretti ad intervenire: «Ci sono situazioni differenti – dice – per gli indiani che si occupano soprattutto della mungitura delle mucche e della preparazione di pregiate mozzarelle, in fondo la vita non è pessima. Ma per gli altri la vita è infernale: molti dormono nelle serre a contatto con gas venefici, si ammalano facilmente, d’estate addirittura preferiscono passare la notte nelle pinete, per poter respirare. In questo periodo c’è la raccolta della rucola che da noi è un oro verde, ma ci sono culture che si alternano quasi per tutto l’anno: kiwi, fragole, carciofi, angurie, finocchi». E si lavora anche 16 ore al giorno per portare poi a casa al massimo 20 euro al giorno, spesso molto meno. Franco dice che sono tanti gli incidenti sul lavoro non denunciati, tanti i lavoratori che avrebbero bisogno di guanti e mascherina protettivi: «Per fortuna cominciano a sorgere forme di reazione. Chi occupa fabbriche dismesse per aggregarsi comincia anche a voler servizi e noi stiamo dando una mano ad insegnare i rudimenti di medicina spicciola, dal come fare una iniezione a come curare un piccolo ascesso. Molti di questi ragazzi sono laureati e si stanno rendendo indipendenti anche dal nostro servizio. Si stanno poi sviluppando forme di mutualismo verso chi non lavora, non ha posto per dormire, magari ha famiglia qui con bambini piccoli. È ancora poco ma è importante».
Le carenze strutturali sembrano richiamare ad un contesto arcaico, ci sono ancora persone che per lavorare partono dai paesi più periferici come Casell’in Vittari alle 3 della mattina facendo due ore di viaggio all’andata e due al ritorno e dormendo poche ore a notte. Ma anche chi è più vicino alle zone di raccolta o alle serre, deve essere pronto alle 5 e passare l’intera giornata in condizioni inenarrabili. È mancato anche un lavoro di sostegno per il diritto all’abitare per i lavoratori, eppure esistono tanti paesini disabitati in cui si potrebbe investire se la Regione o i Comuni decidessero di intervenire. È stato fatto da un sindaco molto in gamba a Sicignano degli Alburni ma il paese ha potuto ospitare un centinaio di persone su una stima, fatta 3 anni fa di presenze, che superava le 1.500 unità. «Sono stati assenti anche i sindacati, tranne rare eccezioni – aggiunge Marino – Così come lo sono stati con le donne nei decenni passati. C’è una ipocrisia generale nei meccanismi lavorativi. Le donne risulta che hanno lavorato 51 giorni, che non sono neanche il tempo necessario per portare a termine una coltura, dalla semina alla partenza dei prodotti. Quindi è sotto gli occhi di tutti che lavorano molto di più e al nero. Allo stesso modo è evidente che molti lavorano solo senza contratto. A mio avviso andrebbero denunciate le aziende che non rispettano la regolamentazione della manodopera e neanche il Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Occorrerebbe una operazione congiunta di sindacati e ispettorato del lavoro ma questa non avviene e lo sfruttamento continua, esasperato dalla crisi. E poi andrebbe accorciata la filiera e aumentato il prezzo a cui viene venduto il prodotto. Da noi capita di non trovare nei mercati le cose che produciamo perché vengono spedite al Nord o nei mercati internazionali e se aumentano le spese di trasporto, gli acquirenti si rifanno pagando meno i prodotti e quindi i lavoratori e le lavoratrici. Dovremmo imparare a vendere dove si produce».
Ma poi, oltre agli elementi economici e per certi versi politici, il tema del lavoro agricolo fa emergere anche altri aspetti. La “politica” cede il passo alla danzatrice e alla esperta di musica popolare e dei suoi significati reconditi. «Noi cantiamo e portiamo in scena storie che hanno come tratto comune la terra e l’emigrazione, io stessa sono figlia di migranti – racconta Loredana e nel suo tono si avverte una passione ancora più forte – Mio padre lavorava a Marcinelle, in miniera, io sin da piccola ogni tanto partivo con mia madre per andarlo a trovare con quello che in musica abbiamo chiamato “Lo treno de lu suli” e di queste cose ne parliamo anche per far capire a quanti dolori era ed è legata sia l’emigrazione che il lavoro della terra. La società contadina è una società fortemente patriarcale in cui le donne sono necessariamente subalterne. La musica, si pensi al rito della Taranta oggi ormai tanto commercializzato, era uno spazio per uscire da questa repressione. La Taranta si chiama così perché il nome viene dalla dea Tar, la terra. Chi danza esegue un movimento circolare che rappresenta il pianeta e l’idea stessa di terra. Il morso è il momento liberatorio in cui la donna può esprimere tutto il proprio dolore e la propria ribellione ma poi l’effetto termina e si torna agli altri 364 giorni all’anno di repressione. Gli stessi strumenti musicali vengono dalla terra, la tammorra serve originariamente per pulire il grano e i ceci, percossa al centro produce un suono cupo che è proprio delle profondità terrestri, ai lati diventa un fruscio che ricorda il vento e l’acqua. Suonare e danzare diventano strumento di lotta e di devozione contemporaneamente – ma la musicista ricede il passo alla militante – Cosa c’entra tutto questo col nostro impegno con i migranti? Molto. Riusciamo a comunicarci le stesse radici di dolore e la stessa voglia di uscire fuori dallo sfruttamento insieme. Stiamo elaborando testi e spettacoli in cui antica e nuova migrazione si incontrano e si riconoscono, in sofferenze simili e nella fatica comune di lavorare la terra, di temere per il raccolto e di sperare di poter lavorare meglio».
Stefano Galieni