Secondo le stime dell’Unhcr, paesi come Burkina Faso, Niger e Mauritania ospitano insieme quasi 200.000 profughi del Mali, dislocati nei diversi campi sorti intorno alle frontiere. Il più grande è quello di Mberra, a 50 chilometri dal confine sudorientale della Mauritania: con i suoi 75 mila sfollati, in maggioranza di etnia tuareg, è diventata una vera e propria cittadella fatta di teli, container e teloni bianchi in pieno deserto.

“Alla fine del 2012, gli attacchi e le azioni di violenza di matrice nazionalista contro i tuareg nel nord del Mali hanno portato molti a lasciare il paese e a rifugiarsi in Mauritania, in particolare a Mberra – racconta Federica Biondi, cooperante di Intersos, l’unica ong italiana presente nel campo – Il flusso è aumentato soprattutto dall’intervento francese, nel gennaio 2013, dopo le lotte decennali dei ribelli tuareg per l’indipendenza del nord del Mali, alla fine ceduto agli islamisti. Da una media di 250 arrivi al giorno, in quel periodo si è passati agli oltre mille, per poi riassestarsi negli ultimi mesi”.

Popolo vittima di antichi odi etnici, riaccesi dopo la caduta del regime libico di Gheddafi, i tuareg maliani di etnia arabo-berbera danno la colpa delle loro sofferenze ai bambara, l’etnia nera del sud del Mali. Ma la situazione è peggiorata per tutti (soprattutto per le donne) con l’arrivo degli islamisti, spesso legati ad al Quaeda, che hanno imposto nelle zone da loro occupate il rigido codice della shari’a. Oggi che, dopo una serie di successi militari francesi, la maggior parte delle città sono tornate sotto il controllo del governo maliano, molti si rifiutano comunque di fare ritorno ai propri villaggi. “C’è il pericolo – commenta Federica Biondi – che l’esercito nazionale li identifichi come sostenitori dei tuareg ribelli, anche se molti sono semplicemente scappati dalla guerra”.

Così, campi profughi come quello di Mberra restano fortemente sovraffollati: “L’impatto è elevatissimo, soprattutto se pensiamo alle risorse limitate e al deserto” spiega la cooperante italiana. Se in genere per un numero così alto di rifugiati si preferisce mettere in piedi più campi, per poterli meglio gestire, in questo caso il governo mauritano ha deciso di costruirne uno solo a causa degli altissimi costi per mantenerlo in sicurezza. Secondo Biondi, fino ad oggi la situazione non è implosa anche grazie al fatto che molti di questi rifugiati hanno già sperimentato la vita da sfollato, dopo le violenze a sfondo nazionalista e autonomista dei primi anni ‘90. Ne conoscono le regole e il funzionamento, e questo ha aiutato a limitare i problemi. Che comunque non mancano. “Si tratta di un luogo estremo, la natura del deserto è inclemente – spiega Federica Biondi – inoltre, insieme ai problemi di natura igienica e logistica, esistono anche quelli di matrice culturale. I rifugiati tuareg vorrebbero vivere secondo i loro ritmi e usanze ma in un luogo del genere è impossibile. Ad esempio, non abbiamo potuto garantire le latrine familiari, e questo ha generato non pochi guai”.

Un’altra diatriba tra gli sfollati e le agenzie che gestiscono il campo riguarda l’alimentazione. “I tuareg si nutrono principalmente di carne e latte, ma in un campo nel deserto è impossibile. Chiedono continuamente di poter integrare la dieta con qualcosa che possono acquistare o produrre autonomamente. Ci sono anche famiglie che hanno potuto portarsi dietro le mandrie, ma vivono lontano dalla popolazione del campo, proprio per esigenze logistiche”. E mentre Medici senza Frontiere denuncia il forte pericolo di malnutrizione, soprattutto dei bambini, per fortuna l’emergenza acqua pare essere rientrata. “Forniamo 20 litri al giorno a persona, che per i loro standard è tanto – commenta Biondi –. Certo, se i numeri dovessero ancora aumentare, la situazione si farebbe di nuovo difficile”.

A Mberra, però, Intersos si occupa soprattutto di educazione. Gestisce le scuole, e ha creato spazi per il tempo libero degli adolescenti, per impedire che l’ozio forzato finisca per portarli ad abbracciare ideologie pericolose, anche se i tuareg affermano di non essere interessati alla jihad islamica. Altro compito dell’ong italiana è il monitoraggio dei casi di violenza di genere. Se all’interno del campo gli episodi sono limitati, prima di arrivare a Mberra sono molte le donne ad aver subito traumi e assalti, e hanno comunque bisogno di assistenza e supporto. Dentro il campo, invece, la piaga più comune riguarda i matrimoni precoci. “Lo ritengono perfettamente in linea con la loro cultura – spiega Biondi – ecco perché l’offerta educativa e le scuole che gestiamo nel campo sono fondamentali. Forse non riusciremo a far accettare i 18 anni come età minima per sposarsi, come vorrebbero i trattati internazionali, ma i risultati ottenuti con l’educazione si vedono a poco a poco”. A recensire i casi di violenza di genere ci pensa Elizabeth, congolese, e amatissima dagli ospiti del campo, che si occupa anche di cercare le cosiddette “mamme allattanti”, in grado di svezzare i piccoli delle madri purtroppo morte di parto. “Di recente ne abbiamo avute 5 – spiega Federica – , offrono un aiuto essenziale dato che pensare di sperimentare qui il latte artificiale sarebbe troppo complicato”.

Elizabeth si occupa anche degli anziani, altra categoria vulnerabile, e insieme agli altri operatori locali è diventata il punto di riferimento per le ong occidentali che lavorano sul campo. Gli italiani come Federica, infatti, sono costretti a missioni brevissime e di basso profilo a causa del forte pericolo rapimenti, e questo nonostante i grossi sforzi da parte del governo mauritano per garantire anche la loro sicurezza. “Dall’11 settembre in poi, gli operatori umanitari occidentali sono diventati dei target, soprattutto in Mali, in cui le basi di Al Quaeda si sono mischiate a una guerra che ormai non è più laica. Se a questo si aggiunge che noi italiani siamo considerati pure dei buoni pagatori...”

Intanto, il governo maliano ha decretato lo stop dello stato di emergenza in vista delle elezioni del 28 luglio. E mentre le truppe francesi si preparano a ritirarsi dal paese, sostituite da un contingente di 12.600 caschi blu dell’Onu, la situazione in tutta la regione resta ad oggi instabile. Per gli operatori del campo mauritano di Mberra, il lavoro non è ancora finito. Ma da noi queste informazioni sembrano non arrivare.

Anna Toro

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