Consob cancella con il crowdfunding il tabù degli utili distribuiti dalle imprese sociali. Il nuovo corso si legge tra le righe della definizione di impresa sociale adottate dal regolamento della raccolta online di capitali pubblicato venerdì dalla Consob. Definizione che, appunto, pur legando l’impresa sociale alla dimensione di start up innovativa, non sbarra la strada alla futura remunerazione del capitale da parte dell’impresa.

In base al regolamento, che riprende i concetti della precedente legge, una società per accedere al crowdfunding deve infatti ricadere nella definizione di «start-up innovativa». Ma il concetto si allarga oltre i confini tecnologici. Al punto c dell’articolo 2 del regolamento, infatti, Consob definisce “emittente” del crowdfunding: «La società start-up innovativa, compresa la start-up a vocazione sociale, come definite dall’articolo 25, commi 2 e 4, del decreto». Insomma, nero su bianco, c’è la start-up a vocazione sociale.

Andando più in profondità si arriva alle radici del tabù. Il decreto menzionato è il decreto legge 18 ottobre 2012 n. 179, conosciuto come Decreto crescita 2.0. Se il comma 2 individua la società innovativa, il 4 si occupa di quella sociale prevedendo che sono start-up a vocazione sociale «le start-up innovative di cui al comma 2 e 3 che operano in via esclusiva nei settori indicati all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155 (la legge che disciplina l’impresa sociale in Italia e che all’art 2 comma 1 individua i settori che rientrano nell’ambito di “utilità sociale”, per esempio l’assistenza sociale e la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ndr)». Certo, per rientrare nella definizione di startup innovativa non si possono distribuire utili ai propri soci per quattro anni. Ma nel regolamento non c’è nessun riferimento al controverso articolo 3 della legge 155, ossia quello che stabilisce per le imprese sociali la necessità dell’assenza di scopo di lucro e il divieto (permanente in questo caso) di distribuire utili. Un passaggio che in passato ha suscitato forti discussioni tra i fautori di due diverse visioni dell’impresa sociale: da una parte chi rimane ancorato ai pilastri del non profit e del terzo settore, dunque improntato principalmente a uno spirito volontaristico e valoriale; dall’altra chi, sempre nell’ambito di intenti sociali, non rifiuta però il concetto di utile di impresa. Tanto più che la legge 155 pare non aver ottenuto i risultati sperati in termini di aziende aderenti. Un tentativo per cambiare la disciplina italiana dell’impresa sociale è stato fatto con la proposta di emendamento della Legge di stabilità 2013 che puntava a eliminare il divieto assoluto della distribuzione di utili, sostituendolo con un tetto al 50% degli stessi, e per specifiche categorie di soci, i quali non potessero comunque avere quote di controllo dell’impresa. Travolto da un fuoco di fila di opposizioni, l’emendamento è stato però ritirato. Sintomo di quanto “la distribuzione degli utili”, che viene automaticamente associata al termine “speculazione”, sia un limite ritenuto invalicabile per una parte del sistema.

Così se l’attenzione dei più nel dibattito sul crowdfunding è sempre stata rivolta alle opportunità per le start up innovative, il regolamento pone una pietra miliare per rivoluzionare il concetto di impresa sociale in Italia. Un punto di svolta che guarda a una terza via, quella che all’estero, specialmente negli Usa, è stata già imboccata con la nascita delle “for-benefit”, realtà che guardano al social business come un ambito che non è né for profit né non profit. Un ambito che non rinnega la possibilità di distribuire utili e remunerare il capitale pur facendo impresa sociale. Un ambito che, sulla scia della teorizzazione del quarto capitalismo, ha le potenzialità per fornire una quarta gamba (accanto a Stato, for profit, non profit) allo sviluppo economico e alla risoluzione dei problemi sociali. In definitiva, un nuovo modello di politica economica sociale.

Ed è lo stesso concetto di equity crowfunding applicato all’impresa sociale, ovvero quello oggetto del regolamento Consob, il primo del suo genere al mondo, a condurre automaticamente a un esito di questo tipo: che senso avrebbe in ambito sociale chiedere capitali diffusi alle persone per soddisfare il dinamismo imprenditoriale (che presuppone rischio, idee, intrapresa a fronte di un guadagno) se non ci fosse la volontà/possibilità di remunerare il capitale? In altre parole, qui la bontà sociale dell’idea è tale proprio perché fornisce un percorso imprenditoriale di successo, capace allo stesso tempo di fornire risposte sociali, stare in piedi da solo e remunerare, come giusto, il capitale.

Altrimenti, l’equity crowfunding non sarebbe necessario: basterebbe chiamarle donazioni.

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