Che l’Italia negli ultimi anni non stia tutelando al meglio i diritti dei lavoratori è un doloroso dato di fatto.

Flessibilità, turn-over, meritocrazia sono stati assunti quali parole-chiave per rinnovare un sistema clientelare e inefficiente a partire dagli anni del boom economico. Una terminologia vuota in realtà, i cui risultati sono sotto gli occhi di chi ha l’onestà per vederli. Discriminazione cocente tra chi un lavoro “alla vecchia maniera” ce l’ha e chi invece cerca di arrancare nel mercato, senza tutele da una prestazione all’altra o in caso di malattia, e senza possibilità di pianificare alcunché nella sua vita. Il “c’è la crisi”, divenuto lo slogan imperante e giustificativo utilizzato dalla “casalinga di Voghera” ai delegati in Parlamento, non può che celare, come un sipario liso, uno scenario devastante del mercato del lavoro in cui primeggia un atteggiamento di discriminazione. Perché tra l’assunzione di una donna giovane (e probabilmente con una sua famiglia o con l’aspettativa di crearsela) e di un altrettanto giovane uomo (sicuramente per natura escluso dal “rischio” di una gravidanza) si opta per quest’ultimo; a nulla sembra servita peraltro l’introduzione della recente normativa sul congedo di paternità per far fronte alla discriminazione occupazionale di genere, che ha avuto un’adesione praticamente irrisoria.

Ben più gravemente, la discriminazione colpisce chi parte da una condizione di per sé svantaggiata. Di questo lo Stato italiano è ben consapevole, tanto da aver concepito la legge 68/99 sul collocamento mirato per “categorie protette”, che obbliga gli enti pubblici ad assunzioni "speciali" di persone con disabilità in un numero variabile in base al totale dei normodotati inseriti in organico. Una norma che si aggiunge alle previste agevolazioni fiscali per tali assunzioni. Ma “c’è la crisi”, e quindi al contempo lo Stato ha previsto una sospensione degli obblighi di legge per un’azienda in difficoltà economica. Facile riscontrare una contraddizione rispetto alla logica alla base della volontà del legislatore, specie quando (anche se “non c’è la crisi”) è prevista una deroga alla legge per i datori di lavoro che non vogliano avere tra i loro impiegati un portatore di handicap a fronte del pagamento di una misera multa.

Una deroga anche ai principi di “pari opportunità” e “non discriminazione”, c’è da chiedersi? Queste dovrebbero essere le parole d’ordine dell’azione di “riequilibrio” che lo Stato italiano è chiamato a compiere. Il condizionale è d’obbligo, nel momento in cui il Paese è stato condannato alcuni giorni fa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per l'incompleta applicazione dei principi UE in materia di diritto al lavoro per le persone disabili, poiché non garantisce loro un adeguato inserimento professionale. In particolare le norme in vigore risultano parziali (non toccano per esempio le aziende private), riguardando solo alcune categorie di disabili e determinati aspetti del rapporto di lavoro, e dunque sono insufficienti. È stata la petizione di Lorenzo Torto, ventenne abruzzese costretto alla sedia a rotelle dalla nascita, a far avviare la procedura di infrazione per l’Italia. La ricerca di un lavoro, al di là del sottoimpiego “a progetto” o “a prestazione occasionale”, a cui Lorenzo come alcuni suoi colleghi non si è sottratto, si è rilevata talmente ardua o impossibile per lui da indurlo a intervenire il 20 marzo 2013 dinanzi al Parlamento Europeo per denunciare che in Italia il diritto al lavoro dei disabili, pur riconosciuto dalla legge 68/99, di fatto non esiste. “Quando leggo l'elenco di posti riservati a disabili con determinate mansioni lavorative che un disabile non può svolgere assolutamente mi rendo conto dell'ingiustizia che regna sovrana”, ha testimoniato. Con profonda tristezza ha parlato inoltre di “una società che a volte non valorizza il disabile come una risorsa da inserire nel mercato del lavoro ma come un impedimento dovuto a un pregiudizio che alberga nell’ignoranza di molte persone tra cui gli imprenditori che non assumono persone con disabilità”.

Non si tratta solo delle parole di un disoccupato stanco: l’appello di Torto a intervenire si è inserito negli sviluppi della procedura di infrazione contro l’Italia in corso già dal 2006 per il recepimento della direttiva 2000/78 sul lavoro dei disabili.

D’altra parte anche i dati forniti dalla Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap parlano chiaro. In Italia lavora circa il 16% dei disabili (circa 300mila individui), contro il 49,9% del totale della popolazione; solo l’11% delle persone con limitazioni funzionali che lavorano ha trovato occupazione attraverso un Centro pubblico per l’impiego; le persone con limitazioni funzionali che sono inattive rappresentano una quota quasi doppia rispetto a quella osservata nell’intera popolazione (l’81,2% contro il 45,4%). Davvero un quadro non lusinghiero per uno degli Stati che ha contribuito attivamente alla stesura della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.

La sentenza della Corte di Lussemburgo giunge peraltro al momento più appropriato: comincia oggi a Bologna la IV Conferenza Nazionale sulle Politiche della Disabilità indetta dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Quale migliore occasione per discutere dei correttivi da apportare alla normativa in materia? Magari sarebbe opportuno ricordare al legislatore l’art. 4 della Costituzione, secondo il quale “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. E se non si vuole osare tanto, ribadire l’importanza del lavoro non solo per garantire il fabbisogno di ogni individuo e la sua realizzazione, ma anche quale strumento di conoscenza degli altri, e di reciproco scambio e arricchimento.

Miriam Rossi

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