Noi non teniamo conto dell'estrema fragilità, dell'estrema vulnerabilità di tante persone. I bambini in certi momenti della loro vita, gli ammalati soprattutto quando la malattia dura a lungo, le persone povere ed impotenti, gli anziani abbandonati, soli. La nostra società, nonostante il gran parlare di solidarietà, dà voce alle persone forti, attive, non vuol sentir parlare della morte e della sofferenza. Tutti cercano di apparire forti, in buona salute, se sono ammalati minimizzano, se soffrono non lo dicono. Perché se ti mostri ammalato, fragile, dai segno di impotenza, i tuoi avversari ne approfittano per denigrarti e per colpirti, coloro che dipendono da te si spaventano, chi deve darti una promozione rinuncia. Malattia e sofferenza sono stigma e presagio di inferiorità sociale e di sconfitta. Nel passato, nella tradizione cristiana, la sofferenza aveva un valore. Il sofferente era più vicino a Cristo crocifisso e meritava non solo compassione, ma rispetto. E l'accettazione della sofferenza era considerato un segno di forza, di nobiltà d'animo, di santità. E veniva valorizzato anche il tipo di sensibilità, di spiritualità che la malattia e la sofferenza portano con sé. Perché il corpo debole, malato, vulnerabile, sofferente, a differenza di quello sano, è come aperto, indifeso di fronte agli stimoli violenti che vengono dal mondo. Sente, come colpi di martello, come lacerazioni, il ruggito dei motori che accelerano, lo sferragliare dei tram, le grida violente, la musica a pieno volume della macchina sotto la sua finestra, perfino le voci degli amici venuti a trovarlo e che poi si mettono a chiacchierare fra di loro e ridono. Lo turbano - come se fosse tornato bambino - gli spettacoli televisivi di horror, di cattiveria, perfino le figure mostruose.
Io ricordo che, al termine di una lunga malattia, era come se non esistesse più un confine netto fra il mio corpo e il mondo. Sentivo, come se succedessero a me, tutte le disgrazie, i dolori di cui parlava la televisione, non importa di chi o dove. Provavo uno strazio insopportabile e scoppiavo a piangere alla notizia di una strage in Africa, vedendo il deragliamento di un treno, le lamiere accartocciate delle macchine di un incidente stradale. Partecipavo al dolore di un insetto ferito, di un cavallo che arranca sotto i colpi di frusta, della gazzella azzannata da un carnivoro. Soffrivo vedendo gli alberi seccati dall'avanzare del deserto, il crollo dei ghiacci dell'Antartico. Ed ho vissuto come mia l'angoscia di due anziani che avevo conosciuto quando erano forti, e che ora ammalati, sfiniti non riuscivano più ad aiutarsi a vicenda, e nei loro occhi c'era la disperazione.
Sono convinto che esperienze analoghe le hanno avute anche gli altri. La sensibilità estrema del corpo malato ha inoltre un'altra qualità: ti consente di percepire l'animo delle persone che ti circondano: se sono violente o miti, se sono generose o avide, sincere o false. Quello che i grandi mistici chiamano: «il discernimento degli spiriti».
Guardiamo perciò con altri occhi la fragilità e il dolore, perché ci arricchiscono, ci danno una visione più profonda degli uomini e del mondo.
Corriere.it, 10 gennaio 2005