Puoi contenerla, incanalarla, purificarla ma non produrla. Di cosa si tratta?
Dell’acqua. Purtroppo, è una risorsa sempre più esigua che, denuncia l’Onu, tra
il 2030 e il 2040 lascerà il 48% della domanda mondiale, è il caso di dirlo, a
bocca asciutta. Un quadro drammatico, figlio di un consumo eccessivo nei Paesi
industrializzati che negli ultimi sessant’anni ha determinato la perdita di più
della metà dell’acqua disponibile. Tra i responsabili spicca anche l’Europa che,
stando al report di RobecoSam, uno dei maggiori asset manager globali
nell’investimento sostenibile, ha un’impronta idrica «basata in larga
misura sul consumo di acqua negli altri Continenti». Cosa significa
impronta idrica? Si tratta, spiega RobecoSam, «del volume totale di acqua usato
per produrre i beni di consumo, misurato in ogni parte della filiera». Ebbene,
l’Europa, attraverso l’uso di materie prime importate dagli altri continenti,
utilizza molta più acqua di quanta ne prelevi dal proprio territorio.
Tra i settori più “assetati” spicca la moda, dove si registra un elevato
consumo di acqua sia nella lavorazione della materia prima sia nel lavaggio.
RobecoSam evidenzia come una singola t-shirt di cotone «ha un’impronta
idrica di almeno 2.700 litri». Oltre all’uso smisurato, sostiene
l’asset manager europeo, si rischia un inquinamento delle acque «quando gli
effluvi delle concerie non vengono elaborati correttamente». Il pericolo è di
togliere risorse a comunità e agricoltori locali, o peggio, immettere sostanze
inquinanti. Come accaduto in Cina, dove Greenpeace ha denunciato la
presenza di sostanze tossiche nei fiumi prossimi alle fabbriche che
riforniscono celebri griffe come Levi’s e Calvin Klein. Affrontare il problema
non è facile, complice una filiera frammentata, dove, afferma RobecoSam,
«aziende come Gap o H&M hanno migliaia di fornitori e spesso possono
acquistare solo il 2-5% della produzione totale da un singolo terzista».
Attraversare il Rubicone è possibile. Tanto che RobecoSam, grazie il suo
engagement analyst Peter Van der Werf, sta analizzando la
gestione idrica insieme a dieci aziende tessili, nella convinzione che per
arrivare a un uso sostenibile delle acque occorrono due elementi:
analisi e comunicazione. «I produttori - afferma Van der Werf - possono
approfondire l’impatto di un ipotetico cambiamento delle risorse idriche nella
zona in cui operano». Questa indagine, prosegue l’analista di RobecoSam, sarebbe
il punto di partenza «per creare una politica di uso efficace delle acque».
Il secondo passo è la comunicazione, importante non solo per scongiurare le
ricadute economiche causate dagli scandali ambientali. I primi destinatari delle
campagne d’informazione sono, secondo Van der Werf, «gli stakeholder legati alle
compagnie tessili, che hanno bisogno di avere un quadro completo sul water
management della società e quanto bene si comporta in questo settore». Inoltre,
prosegue l’analista, «le aziende dovrebbero rendere pubblici i risultati degli
studi e collegarli in modo chiaro con gli obiettivi sulla gestione delle
acque».
Ci sono aziende che hanno anticipato i consigli di RobecoSam dando vita alla
“Better Cotton
Initiative”. Il progetto coinvolge realtà come Nike,
Adidas, Rabobank e WWF, oltre ovviamente ai produttori di cotone.
L’obiettivo è coinvolgere tutti gli attori della filiera nella creazione di
“Better Cotton”, formula che indica un prodotto altamente sostenibile, creato
senza l’uso eccessivo di pesticidi, evitando metodi di produzione ecologicamente
inefficienti e cattive condizioni di lavoro.
L’importanza che una realtà come RobecoSam (al 31 marzo 2013, contava 7
miliardi di euro di asset gestiti) dà al water management e le parole di Van der
Werf, meriterebbero qualche minuto di riflessione da parte dei grandi brand
della moda italiana. Soprattutto dopo che Greenpeace ha bacchettato i colossi
del lusso per non aver fatto i compiti a casa. Lo scorso febbraio è stato
recapitato un questionario con venticinque domande su tre temi ambientali: gli
acquisti di pelle, carta, e le contromisure per evitare l’uso di sostanze
tossiche nelle produzioni tessili. Ben 6 su 15 sono le aziende che non
hanno risposto al questionario, mentre sono stati bocciati molti marchi di primo piano.
Paolo Ballanti