La buona notizia è che nelle ultime settimane, e seppur con deplorevole ritardo, i leader del continente sembrano aver compreso che il cancro in metastasi della disoccupazione giovanile esige una cura coordinata e condivisa a livello europeo. Sotto questo profilo l'impulso del neo-premier Letta è stato cruciale.

Così, dopo il super-vertice romano tra i ministri delle finanze e del lavoro d'Italia, Spagna, Francia e Germania, il summit europeo di giovedì e venerdì ha finalmente apposto il proprio sigillo politico all'ormai famosa Garanzia per i giovani - sì, famosa perché se ne parla e straparla da più un anno ma purtroppo le tempistiche di Bruxelles sono quelle che sono. Ad ogni modo, com'è noto, per l'iniziativa è previsto un primo contributo comunitario da 6 miliardi euro che sarà erogato attraverso il canale dei fondi strutturali, e rivolto a titolo esclusivo a quelle regioni il cui tasso di disoccupazione giovanile nella fascia 15-24 anni eccede il 25%.

Si tratta di un impegno finanziario certamente rilevante, ma che se raffrontato alla magnitudo del problema impallidisce. "Abbiamo speso 700 miliardi di euro per salvare le banche e ora, dopo tanta esitazione, stanziamo solo 6 miliardi per la disoccupazione giovanile", ha ironizzato non a torto il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz. Se tra l'altro si pensa che lo stanziamento rappresenta una frazione infinitesimale del bilancio comunitario 2014-2020 (che pesa per oltre 900 miliardi di euro), se ne comprende la portata meramente simbolica. Nei fatti spetterà pur sempre agli stati membri reperire singolarmente il grosso delle risorse, o addirittura tutte le risorse, per mettere in pista la Garanzia per i giovani. E per un'attuazione efficace, secondo stime dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, servono almeno 25 miliardi.

Di più, del resto, non si poteva fare. L'asse dei paesi euro del nord, ormai sempre più restia a trasferire risorse a Bruxelles, guarda rinfrancata alla disoccupazione giovanile come ad una patologia che alligna essenzialmente tra i propri cugini meridionali, dalla Spagna all'Italia, passando per la Grecia. Ed è qui che si sbaglia. Perché ad essere pignoli il problema interessa grossomodo tutte le latitudini europee: basterebbe leggere in controluce le statistiche. Come ha fatto di recente Daniel Gros, alla guida del think tank Ceps.

Gros spiega che i numeri solitamente scelti per raccontare la disoccupazione giovanile dell'Unione europea sono riferiti alla fascia d'età 15-24 anni e, fatto ancor più decisivo, sono basati sui partecipanti al mercato del lavoro. Ma la partecipazione al mercato del lavoro in questa tranche d'età è estremamente ridotta quasi ovunque nel Vecchio Continente. Più corretto, e veritiero, sarebbe dunque misurare l'incidenza percentuale dei disoccupati rispetto all'intera popolazione anagrafica di riferimento. A voler usare questo secondo indicatore, lo scenario assumerebbe tinte decisamente meno drammatiche, o comunque diverse da quelle che fanno i titoloni dei nostri giornali.

In effetti, percentuali faraoniche come il 50% o il 62% di giovani disoccupati in Spagna e Grecia non significano che nei due paesi rispettivamente 50 o 62 giovani su 100 non trovano lavoro ma indicano che sul campione di giovani che partecipano al mercato del lavoro (che in ogni caso rappresentano il 9% del totale della popolazione in quella fascia d'età) due terzi di essi, cioè poco meno del 6% del totale, non trova lavoro. E qui casca l'asino. Perché, paradossalmente, proprio in Spagna e Grecia la frazione di under-25 senza lavoro (molti ancora studiano) rappresenta meno di un quarto del totale dei disoccupati di tutte le età, mentre in paesi come la Svezia e il Regno Unito lo stesso dato sale a quasi la metà sul totale.

Ovviamente, non significa che a nord di Berlino se la passino peggio di noi. Piuttosto, l'aspetto metolodogico della questione è funzionale al nodo politico a cui Gros vuole richiamarci.
Il problema della disoccupazione giovanile minaccia di divenire un falso mito se non lo si rapporta correttamente a due questioni che i leader europei giovedì e venerdì hanno ignorato o affrontato solo in maniera incidentale.

Primo, i giovani sopra i 25 anni (e non sotto i 25 anni) che concludono gli studi universitari con tanto di specializzazione nella maggior parte dei paesi europei trovano sempre più difficoltà a entrare nel mercato del lavoro.

Secondo, i veri disoccupati destinati a rimanere "cronici" nel sistema sono trentenni e quarantenni che, una volta licenziati o costretti a smettere la propria attività per motivi legati alla crisi, si riversano nel mercato del lavoro e non trovano nessuna forma di impiego.

Quest'ultimo aspetto è particolarmente pesante nei mercati bloccati del Sud rispetto al Nord-Europa ed è qui che dovrebbe giocarsi la vera questione di un intervento coordinato europeo sul problema della disoccupazione. (http://www.huffingtonpost.it/francesco-molica/disoccupazione-se-il-consiglio-ue-sbaglia-visione_b_3532433.html?ncid=edlinkusaolp00000003)

Francesco Molica e Alessandro Mulieri

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