In un video serbo apparso su Youtube e diffuso dal Forum Destra politica si sentono parole come “sporca razza asiatica”, oltre a informazioni distorte sulla storia dei Rom per giustificare la loro deportazione dalla Serbia. “La musica di sottofondo in una parte del video è stata fatta dalla band neonazista serba Drzavni Udar, e il nome della canzone è Cigansko djubre (bastardi zingari), con immagini e testi in linea con il messaggio complessivo del video”.

Su un altro filmato Youtube, che riguarda la costruzione di una moschea in Islanda, si possono leggere una miriade di commenti intrisi di odio contro i musulmani, così come in un post pubblicato sul blog FreeBritain è il testo stesso dell’articolo a spargere intolleranza e rancore contro gli immigrati. Ma non manca anche l’Italia, con le parole di un noto politico di destra e la sua proposta di usare i fondi pubblici per caricare i treni di “nomadi” e rimandarli a casa loro.

Sono solo alcune delle denunce che compaiono sull’ “Hate speech watchdog”, il nuovo osservatorio sulle parole d’odio online promosso dal Consiglio d’Europa attraverso la campagna “No hate speech”, che durerà fino al 2014. Il progetto, che coinvolge tutti i 34 paesi del Consiglio, intende sensibilizzare e mobilitare i cittadini contro l’uso delle parole d’odio, in particolar modo online. Destinatari principali sono i giovani che, secondo il vice segretario generale Gabriella Battaini-Dragoni, “sono le persone maggiormente consapevoli del dilagante percorso dell’odio su internet, favorito dall’anonimato e dalla visibilità che questo strumento concede”. Contemporaneamente, aggiunge, “i giovani sono anche le vittime più vulnerabili”.

Ma cosa significa “hate speech”? Secondo la definizione del consiglio d’Europa, l’incitamento all’odio “copre tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza, tra cui quella espressa dal nazionalismo aggressivo e dall’etnocentrismo, la discriminazione e l’ostilità nei confronti delle minoranze, dei migranti e delle persone di origine straniera”.

Così, a metà strada tra forum e social network, il sito del movimento incoraggia gli utenti a segnalare comportamenti in rete che sfociano nel razzismo, nell’omofobia, o anche nelle molestie a una persona. Perchè l’hate speech sempre più spesso prende le forme del cyberbullismo, a volte con conseguenze tragiche per le giovani vittime che non sanno più come gestire, come dimostrano anche le recenti cronache italiane.

Secondo i dati di Eurispes/Telefono Azzurro, nel 2012 un bambino italiano su quattro è stato vittima di cyberbullismo, e un’indagine realizzata da Ipsos per Save the Children mostra che sono i social network la modalità d’attacco preferita dai cyberbulli che tendono a colpire attraverso la diffusione di foto e immagini denigratorie (59%) o tramite la creazione di pagine apposite (57%). Le vittime sono prese di mira innanzitutto per l’aspetto estetico, la timidezza, il supposto orientamento sessuale, l’essere straniero, l’abbigliamento e perfino la disabilità. Meno “attraenti” per i cyberbulli sono invece l’orientamento politico o quello religioso.

A quello, infatti, ci pensano gli adulti. Come dimostra il caso in Gran Bretagna che ha coinvolto la professoressa di lettere antiche Mary Beard, contro la quale, a seguito di una sua partecipazione a una trasmissione televisiva in cui aveva parlato del contributo positivo dei migranti, si è scatenata una virulenta campagna di odio online caratterizzata da insulti sessisti e minacce irripetibili. E proprio il sessismo è un altro dei campi in cui l’istigazione all’odio online si concentra particolarmente. Di recente è nato un movimento internazionale, sempre in rete e sui social network, che incoraggia le donne e le ragazze a non rimanere in silenzio e a condividere le proprie esperienze, tra minacce, commenti e insulti reali e virtuali. Si chiama Everyday Sexism, fondato dall’inglese Laura Bates, e oggi seguito e appoggiato da migliaia di utenti in tutto il mondo. E proprio su Facebook si stanno concentrando ultimamente le energie della fondatrice, con una campagna, sostenuta da più di 40 organizzazioni internazionali, in cui si chiede alle aziende di rimuovere la propria pubblicità dalle pagine a contenuto sessista e violento. Agli utenti il compito di segnalare e contattare le società, le quali spesso ignorano dove finiscano realmente i loro loghi.

Oltre alle aziende, un impegno in questo senso è preteso anche dall’azienda di Zuckerberg: Bates e gli altri attivisti chiedono infatti a Facebook di riconoscere come “hate speech” i contenuti che banalizzano o glorificano la violenza contro le donne, e di impegnarsi a rimuoverli; la seconda richiesta è di formare in modo efficace i moderatori per imparare a riconoscere l’incitamento all’odio, soprattutto a quello di genere, in modo da poter agire tempestivamente. Certo, Bates sa bene che Facebook non è pre-moderato, e che le immagini problematiche possono sempre essere pubblicate, ma chiede solo che il sito le rimuova il più rapidamente possibile. Riconosce anche che questa tematica s’interseca con quella sensibilissima della libertà di parola, ma sottolinea che Facebook, così come altre piattaforme social, hanno politiche che definiscono i contenuti accettabili e quelli che non lo sono: semplicemente, chiede che queste vengano applicate correttamente.

“La rete ha al suo interno gli anticorpi ai problemi che contribuisce a far nascere” ha affermato Stefano Rodotà durante la presentazione italiana della campagna europea “No hate speech”, e i movimenti di giovani nati proprio online, dimostrano che l’intenzione di chi si batte contro l’odio in rete non è quella di censurare né di criminalizzare internet. “La libertà di parola significa essere liberi di utilizzare la tecnologia e partecipare alla vita pubblica senza paura di abusi – scrive l’editorialista dell’Independent Laurie Penny – Se a poterlo fare sono solo sono i bianchi, gli uomini e gli eterosessuali, allora internet non è così libera come vorremmo credere”.

Anna Toro

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