Il tema migrazione continua a essere declinato al maschile, eppure su 100 persone che arrivano in Italia ben 52 sono di sesso femminile. Se ne è parlato a Roma a un convegno della Cgil.
Donne in migrazione è il titolo del convegno sulla migrazione femminile che si è tenuto il 18 giugno nella sede nazionale della Cgil. Primo di una serie di incontri, nasce da un anno di lavoro: laboratori orizzontali di idee e proposte della rete Donne in migrazione della Cgil, coordinata da Mercedes Landolfi. Il titolo probabilmente non rende giustizia alla ricchezza dell’analisi venuta fuori dalle quattro ore di questa prima giornata sul tema. Come bene ha detto Vera Lamonica (segreteria confederale Cgil): «L’occhio delle donne ha storicamente prodotto una visione più complessiva sui fatti del mondo». In Italia, come affermato da Mara Tognetti, dell’Università Bicocca di Milano, il movimento migratorio è composto ormai per il 52% da donne. La maggior parte si muove per libera scelta di progettualità individuale.
Nonostante ciò, il tema della migrazione rimane rappresentato come un tema “maschile”: gli uomini si spostano con “donne al seguito”, gli uomini lavorano (o “rubano il lavoro”, dipende dal punto di vista), gli uomini delinquono. Su questo assunto di base, i media costruiscono un racconto distorto e parziale, la legislazione si dota di normative insufficienti, quando non dannose, per i soggetti migranti e la comunità ospitante, la politica non stimola le giuste domande e produce spesso risposte viziate. Quattro sono stati i focus tematici di questo lungo e appassionante workshop. Il Welfare e la salute, prima di tutto. La costruzione di reti e nuove alleanze. La violenza sulle donne migranti e la doppia discriminazione (quella che più volte è stata chiamata “La doppia colpa di Medea”, donna e straniera). Il lavoro e il ruolo del sindacato.
Le donne migranti, spesso confinate nelle categorie di colf, badanti e mogli di, sono in realtà la chiave del welfare nazionale e transnazionale. Sono consumatrici, produttrici e “aggiustatrici” di Welfare (per citare Tognetti). Il loro vissuto privato e professionale racconta meglio di un saggio di economia a che punto si trova il nostro malandato stato sociale. Che le donne migranti costruiscano Welfare è tutto sommato evidente ai più. Lì dove il servizio sanitario arretra, ad esempio, ecco arrivare il lavoro di cura delle giovani e meno giovani donne dell’Est Europa. Un servizio concorrenziale sotto molteplici punti di vista. La domiciliarizzazione del lavoro di cura e l’informalità contrattuale, per dirne alcuni. Le donne migranti costituiscono un ulteriore di più. Un collante economico e culturale globale. Le “rimesse commerciali”, sono da considerarsi un vero e proprio welfare transnazionale che consente di alimentare da una parte un circolo virtuoso di sostegno ai paesi di origine, dall’altra impedisce alla donna migrante una progettualità a lungo termine e condanna i figli rimasti in patria ad un abbandono de facto. Le donne rispetto agli uomini sono inoltre più costanti e generose nell’invio di denaro, regali e farmaci. Un esempio lampante è l’invio di farmaci italiani all’estero, spesso sottratti agli ignari badati. Un danno per il paziente qui e la spia di un disagio economico lì. È l’effetto boomerang del neocolonialismo visto sotto la lente di ingrandimento dello studio di settore.
I dati sul consumo sono i più strutturati, ma non per questo più confortanti. Quella che emerge è una consumatrice spaesata e poco costante, complici le regole poco chiare, la scarsa accessibilità delle informazioni (a livello sia linguistico che culturale), l’impreparazione degli operatori, la burocrazia farraginosa, la paura di essere denunciate per mancanza di permesso di soggiorno.
Per quest’ultimo motivo, le donne migranti vittime di violenza sono restie a denunciare l’aggressione o l’abuso: «Dal momento in cui – ha affermato Chiara Scipioni, responsabile del centro antiviolenza Differenza Donna – le forze dell’ordine che raccolgono la denuncia sono pronti ad accompagnare la vittima in un Cie qualora sprovvista di regolare permesso di soggiorno». Anche lì, il rischio di abusi e violenze è altissimo. Le donne migranti trasformano e aggiustano il welfare, o esso si adegua anche se con lentezza a queste nuove attrici. Non servizi pensati per, ma strutture plurali e multiculturali in cui gli operatori si dotano di un bagaglio tutto nuovo: dal ripensamento degli orari di apertura alla nascita di nuove figure professionali, quali gli psicologi transnazionali. Per usare la felice espressione di Fulvia Colombini (Cgil Lombardia), “non differenziare, bensì articolare il servizio” è la giusta risposta.
Il tema della violenza e del lavoro sono tristemente intrecciati. Il mondo del lavoro si sta “femminilizzando” di anno in anno e cresce di pari passo il numero delle migranti. Non solo nel settore della cura domestica (anche se prevale nelle stime con un buon 70%), ma anche in settori strategici dell’industria tessile e manifatturiera. La precarietà che tutte e tutti mette in condizione di ricattabilità continua, vede le donne straniere ancora una volta doppiamente discriminate. Sono le prime ad essere messe in cassa integrazione. Ad essere precisi, la rotazione prevede “prima le donne e poi gli stranieri” come denuncia sarcasticamente Eliana Como (Fiom). Como ha raccontato anche dei diversi casi di denuncia di abusi sul posto di lavoro. Inutile anche qui ripetere che le donne migranti sono doppiamente esposte. Su 600 donne intervistate, circa il 18% ha denunciato intimidazioni, quasi il 5% violenze da parte di colleghi e circa l’8% attenzione sessuale non desiderata da parte del datore di lavoro.
L’Italia in questo vanta due tristi primati. È ai primi posti tra i luoghi di transito e destinazione per la tratta di esseri umani, e l’ultima per numero e qualità di strutture ricettive per le vittime. Si stima che l’80% delle donne detenute nei Cie sia vittima di tratta, quindi sottratta alle cure fisiche e psicologiche necessarie e nuovamente esposta a ricatti e abusi. In Italia, inoltre, tra le 20 e le 30 mila donne e bambine subiscono mutilazioni genitali.
Anche se è del gennaio 2006 la legge sulla “prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile, il numero delle vittime non sembra arrestarti. La difficoltà di emersione, denuncia e conseguente sostegno è diretta conseguenza di una vita quasi interamente domiciliare e una rete sociale, amicale e familiare pressoché assente. Questo vale anche per la prostituzione intra mœnia delle donne cinesi, lontana dagli sguardi indiscreti delle strade e perfino dalle statistiche.
A confermare inoltre che lo status di migrante costituisce una difficoltà in più per le donne che abitano lo Stivale, arrivano i dati del centro antiviolenza Differenza Donna. Delle 1700 (millesettecento) donne che si sono rivolte al centro per la prima volta quest’anno, quasi la metà erano migrate da un altro paese. A questo proposito Chiara Scipioni ha ricordato che l’articolo 59 della Convenzione di Istanbul – da poco ratificata dal Senato italiano – riserva una sezione normativa proprio allo status di residente straniera. Un accorgimento per nulla superficiale prevede forme autonome di permesso di soggiorno nel caso in cui il ricongiungimento debba avvenire con un marito autore di violenza.
Quello che però anche Lamonica ha tenuto a sottolineare nelle sue conclusioni, è che da questa riscoperta della donna migrante come chiave di lettura della realtà, non emerge soltanto la figura di vittima preferenziale, di soggetto debole da difendere. Le donne migranti ci consentono con le loro domande di ricostruire sì la gerarchia dei bisogni. Ma sono anche e soprattutto portatrici di trasformazione, incarnando appieno l’intercultura, la trasmissione ereditaria e l’innovazione contagiosa. È Samia Oursana della Fondazione Nilde Iotti a riportare i risultati di una ricerca sull’associazionismo delle donne migranti. Sono in aumentano e trasformano la loro vocazione da assistenziale ad imprenditoriale. Sono cooperative under50 per la maggior parte multietniche. Terziario soprattutto, ma anche un buon 18% di ristorazione.
A Miriam Traversi dell’Flc, ex insegnante in pensione, è toccato il compito di esporre il progetto Sei più, messo in piedi dal Centro Intercultura di Bologna insieme con la Provincia il Comune bolognese, il dipartimento di Scienze della Formazione e le miriadi di associazioni e cooperative emiliane di donne per le donne. Sedici istituti professionali ad alta percentuale di ragazzi stranieri sono stati scelti inizialmente per dare un sostegno linguistico agli studenti e fornire servizi di orientamento agli studi superiori e al lavoro.
In seconda battuta sono state coinvolte le mamme. Renderle protagoniste attive di laboratori ricreativi, informatici, linguistici a loro espressamente dedicati, ha raccontato con giustificata soddisfazione Traversi, le ha messe in condizione di poter partecipare attivamente del percorso scolastico dei figli, di guadagnarne in stima e autostima, di creare un tessuto di relazioni con gli altri genitori e di fare da collante tra famiglie e scuola. Lavorare con le mamme migranti ha permesso di far luce su una delle più grandi lacune del nostro sistema educativo, ovvero la non-presenza dei genitori nelle scuole, nonché di luoghi loro dedicati come le cosiddette room parents dei paesi anglosassoni.
Questo primo incontro ha fornito le basi per una rete di vite, esperienze e competenze. Oltre che un bagaglio di riflessioni e analisi quantitativamente e qualitativamente rilevanti per le future azioni politiche, a livello sia sindacale che sociale. I prossimi appuntamenti sono stati già fissati. Il 27 giugno i giovani italiani di seconda generazione incontreranno la ministra Idem e illustreranno i risultati della campagna L’Italia sono anch’io e del progetto Gener-azione in vista dei primi stati generali degli italiani di seconda generazione in Italia. Inutile dire che le giovani donne hanno fornito un contributo essenziale.
Il 4 luglio invece si terrà l’Assemblea Nazionale delle donne Cgil, nel quale è evidente ormai a tutte, il tema delle sorelle migranti non sarà affatto una questione periferica. Finalmente.
Noemi De Simone