Parola dell’Ocse, che pubblica lo studio Education at glance 2013. Per sviluppare un’economia più verde occorre ripartire dai banchi di scuola. Il valore dell’istruzione aumenta in tempo di crisi, ma gli investimenti in questo settore sono in calo. La sintesi del preoccupante messaggio lanciato dall’Ocse con la pubblicazione del rapporto Education at glance 2013 non ci coglie impreparati: l’Italia, purtroppo, si conferma ancora una volta un palco privilegiato per osservare le dinamiche di questa perversa tendenza.

di Luca Aterini

L’analisi dell’’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico fornisce dati sullo stato dell’istruzione in tutto il mondo, analizzando i sistemi educativi dei 34 paesi membri dell’Ocse (più altri 8). In questo vasto panorama, l’Italia è abituata da tempo ad occupare gli ultimi posti in classifica, come dimostra già l’analisi della passata edizione del rapporto Ocse e innumerevoli altri studi, tra i quali All – Adult Literacy and Life Skills – condotto sempre sotto il cappello dell’organizzazione parigina – che individua nell’analfabetismo di ritorno una delle vere e proprie piaghe del Bel Paese.

In questa versione aggiornata del dramma italico, l’Ocse osserva implacabile che «l’Italia è l’unico Paese dell’area dell’Ocse che dal 1995 non ha aumentato la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria. All’opposto, nello stesso periodo i Paesi dell’Ocse hanno aumentato in media del 62% la spesa per studente negli stessi livelli d’istruzione». Potrebbe apparire incoraggiante l’aumento (nello stesso periodo) della spesa per studente di livello terziario – aumentata del 39% contro una media del 15% – ma l’Organizzazione sottolinea che «tale aumento è ampiamente riconducibile a quello dei finanziamenti provenienti da fonti private. Ciononostante, la spesa per gli studenti di livello terziario (USD 9 580, in PPP) continua a essere ben inferiore alla media dell’area dell’Ocse (USD13 528)».

Se le istituzioni che rappresentano il Paese al suo più alto livello non credono nell’istruzione non c’è da stupirsi se anche i ragazzi le voltano di conseguenza le spalle. «In Italia, i più giovani tendono ad avere un livello d’istruzione più elevato rispetto ai concittadini più anziani, ma solo il 15% degli Italiani di 25- 64 anni ha raggiunto un livello d’istruzione universitario, rispetto a una media Ocse del 32%». Già a 15 anni, la percentuale di giovani italiani la percentuale che spera di conseguire una laurea è addirittura diminuita di 11 punti percentuali – dal 52,1% al 40,9% – tra il 2003 e il 2009.

D’altronde, non c’è da stupirsene: i dati sugli stipendi indicano che in Italia i giovani laureati trovano difficilmente un lavoro adeguato alla loro preparazione, anche decidessero di concludere il loro percorso di studi. «Gli italiani laureati della classe di età dei 25-34enni – osserva l’Ocse – guadagnano solo il 22% in più rispetto a chi nella stessa classe di età ha conseguito un diploma di maturità (la media Ocse è del 40% in più)». Sono solo i lavoratori più anziani (55- 64enni) a guadagnare il 68% in più rispetto ai lavoratori della stessa classe di età che hanno un diploma della scuola secondaria superiore (anche se la media Ocse è del 73% in più).

Ma questo è il risultato finale, a dire poco allarmante, di scelte politiche inadeguate. Lo stesso quadro, infatti, non si ripresenta in modo generalizzato negli altri paesi. Anzi. «Il livello di studi raggiunto – sottolinea l’Ocse – ha un grandissimo impatto sull’occupabilità e la crisi non ha fatto altro che accentuarlo. In media, tra i Paesi dell’Ocse, 4,8% dei laureati erano disoccupati nel 2011, rispetto a 12,6% di disoccupati che non avevano conseguito un diploma dell’istruzione secondaria superiore. Tra il 2008 e il 2011, il gap tra chi ha un basso livello d’istruzione e chi ha titoli di studio di alto livello si è accentuato». In generale, il tasso di disoccupazione di chi ha un basso livello d’istruzione è aumentato di quasi il 3,8%, mentre ha segnato un aumento di solo l’1,5% per chi ha raggiunto un alto livello d’istruzione.

Lo stesso vale per la retribuzione. In media, gli stipendi dei diplomati universitari sono «superiori di 1,5 volte rispetto ai diplomati della scuola secondaria di secondo grado, mentre chi non ha conseguito un diploma secondario di secondo grado guadagna il 25% in meno, in media, rispetto a chi ha ottenuto la maturità. La crisi ha accentuato il gap retributivo: nel 2008, la differenza delle remunerazioni dei lavoratori poco qualificati rispetto a quelli molto qualificati era in media del 75% nei Paesi dell’Ocse, e nel 2011 si è accentuata fino a raggiungere il 90%».

Cos’è, dunque, che non funziona in Italia? La risposta non può liquidarsi in una semplice battuta, e comprende una molteplicità di fattori. Tra questi, sicuramente è presente – come sottolinea l’Ocse – il modo in cui «gli accordi istituzionali tra mondo dell’istruzione e del lavoro facilitano la transizione dei giovani verso il mondo del lavoro». Se le due sfere non sono collegate tra loro, l’efficienza complessiva perde molto terreno.

Per l’Italia, però, colmare questo gap comunque non basterebbe. Senza la volontà di sviluppare il tessuto economico nazionale verso produzioni a più alto valore aggiunto, efficienti nell’utilizzo di risorse (naturali e umane) continueremo a perdere posizioni sia sul terreno della competitività economica che nell’offerta di qualità della vita ai cittadini e – non meno importante – nel bilancio di sostenibilità ecologica del Paese. Per sviluppare un’economia più verde occorre quindi ripartire direttamente dai banchi di scuola: senza fondamenta sulle quali costruire anche il più solido sogno di un futuro migliore non potrà che crollare.

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