Il colloquio targato Iris rivela un cambio di approccio. È stata Torino la cornice della settima edizione del Colloquio Scientifico Annuale sull’Impresa Sociale, promosso da Iris Network, la rete nazionale degli istituti di ricerca sull’impresa sociale, e organizzato quest’anno in collaborazione con l’Osservatorio sull’Economia Civile della Camera di Commercio di Torino e naturalmente l’Università degli Studi del capoluogo piemontese, che ne ha ospitato i lavori.
Un appuntamento che anno dopo anno si va affermando sempre più nei radar degli operatori del settore, come ha confermato a ET. il segretario generale di Iris Flaviano Zandonai: «Siamo molto soddisfatti – ha commentato – è stata l’edizione più numerosa con oltre 170 partecipanti, che non sono pochi per un convegno scientifico». Accademie italiane ed estere, pubbliche e private, istituzioni, associazioni, fondazioni e un buon numero di operatori del settore (cooperative sociali, per esempio): un caleidoscopio di attori che ha condiviso le proprie esperienze specifiche in sessioni tematiche articolate attorno a quattro grandi assi: (a) Misure per la valutazione di impatto (b) Formazione, competenze e motivazioni dell’imprenditore (c) Innovazione sociale e capacità di networking (d) Condizioni per lo start up e lo sviluppo.
«Sono due a mio avviso gli elementi interessanti emersi quest’anno - ha proseguito Zandonai -. Il primo è la segmentazione, vale a dire la specificità delle proposte; ci si interessa a temi sempre più mirati, al dettaglio». Rating sociale, distretto sociale, imprenditorialità sociale, inclusione sociale, “vocazione” sociale sono alcune delle keywords che si ripetono tra i titoli dei lavori che sono stati proposti. Un ventaglio sempre più ampio che ricorda che non basta più volare alti, c’è bisogno di sistematizzare le esperienze per scansare «il rischio - scrive nel suo paper uno dei relatori a proposito dell’innovazione sociale – che un concetto, dotato di forti potenzialità, si trasformi in un’espressione omnicomprensiva e indeterminata (fuzzyword), che dà vita ad una moda passeggera, ricalcando quanto già accaduto per altri obiettivi strategici del mondo occidentale, tradotti in slogan altisonanti e di primo acchito convincenti, ma incapaci di produrre reale mobilitazione e soprattutto di orientare l’impegno degli attori verso mete effettivamente condivise».
L’impressione, in uno degli appuntamenti chiave del settore, è di trovarsi in un momento di svolta, nel quale il social business italiano può e deve diventare adulto per dare risposte concrete e offrire in maniera convincente un nuovo modello di sviluppo. Da qui per Zandonai «il secondo elemento di interesse, cioè il cambiamento dell’approccio, che prima era esclusivamente non profit». Emerge finalmente tra gli operatori l’attenzione al tema della sostenibilità economica dell’iniziativa sociale, ma il cambiamento è lento e faticoso. A questo proposito un’interessante testimonianza delle difficoltà del nostro Paese proviene da CheFare, iniziativa promossa dall’Associazione culturale Doppiozero in partnership con Avanzi. CheFare nei mesi scorsi ha messo in palio un premio di 100.000 euro per il miglior progetto di innovazione culturale a impatto sociale con un bando semi-clandestino che ha ricevuto oltre 500 proposte, alcune delle quali di grande spessore e consistenza. Ma una lezione è stata imparata: «L’analisi dei dossier dei progetti presentati – hanno raccontato nella loro sessione e scritto nel paper Bertram Maria Niessen di Doppiozero e Davide Zanoni di Avanzi – ha infatti evidenziato la prevalenza di attività non strutturate in senso economico, di modelli gestionali e di business non sufficientemente sviluppati per garantire la solidità economica delle iniziative progettuali. In particolare, è emersa con forza la difficoltà a ‘pensare come imprenditori’, a elaborare piani di costi e ricavi necessari a ponderare la sostenibilità finanziaria del progetto». Ma i problemi non si fermano qui. E sono puntuali le osservazioni di Marco Ratti di Banca Prossima, per il quale continuano a mancare metriche adeguate per le valutazioni di impatto («fanno tutte riferimento agli input, poche agli output e nessuna agli outcome»), misure per favorire equity e debito, un network di consulenti ad hoc e un ecosistema di servizi come invece avviene già in Uk (sistema ben più avanzato che ha appena lanciato la Big Society Capital e il Social Value Act) che potrebbero aiutare i potenziali start upper a rendere più concreta la loro iniziativa imprenditoriale.
L’assemblea plenaria di chiusura del Colloquio ha toccato il tema della distribuzione degli utili, della legge 155, delle forme giuridiche e contestualmente dei paletti da sistemare per identificare il recinto del social business. Parafrasando un tweet di Zandonai la questione è apparsa come: meglio il sostanzialismo dell’avvocato e professore Guido Bonfante – che chiede una forma giuridica ad hoc per l’impresa sociale (posto che quella attuale non funziona) – o l’ibridazione statutaria a cui riporta l’esperienza di Davide Dal Maso di Avanzi? Oppure ci troveremo davanti un “meticciato imprenditoriale” come suggerito provocatoriamente dal professor Giorgio Fiorentini, moderatore del dibattito? Tra le diverse visioni, intanto, Mario Calderini (tra le altre cose consigliere per l’innovazione del Miur) ha ricordato che il giorno precedente era andato in scena a Londra il Social Impact Investment Forum: un preparatory meeting, in vista del G8 (a guida David Cameron, UK, per l’appunto) del 17 e 18 giugno prossimi. Per la prima volta un meeting di questo genere ha avuto all’ordine del giorno l’impact investing, la finanza solidale e le modalità per promuoverli. Speriamo che il premier Enrico Letta prenda appunti. Nel frattempo l’appuntamento a Napoli per l’edizione 2014 del Colloquio.
Felice Meoli