La disuguaglianza economica alla radice della crisi. Ma dalla storia non vogliamo imparare. Intanto la finanza mondiale supera i fasti del pre-crisi. Fame di soldi e rischio da record.
di Luca Aterini
Cinque anni. Cinque anni di crisi, e ogni giorno che passa appare sempre più chiaro – se mai ve ne fosse stato il bisogno – chi sta realmente pagando il conto. Nel 6° rapporto su I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, a cura del Gruppo CRC (composto da 82 associazioni, coordinate da Save the Children) si legge che il 32,3 % dei minori è a rischio povertà in Italia, nel cuore della civile Europa.
Nel rapporto, presentato alla presenza del ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Enrico Giovannini, insieme all’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Vincenzo Spadafora, si legge che «l’intensità della povertà che misura di quanto in percentuale la spesa media delle famiglie povere è al di sotto della soglia di povertà, nel 2011 è risultata pari al 21,1%, mentre nel Mezzogiorno è del 22,3%. Le situazioni più gravi si osservano tra i residenti in Sicilia (27,3%) e Calabria (26,2%), dove sono povere oltre un quarto delle famiglie». Al contempo, i fondi continuano ad essere tagliati: «Le risorse destinate all’infanzia e all’adolescenza per le 15 città riservatarie sono passate dai 43,9 milioni di euro del 2008 ai 39,6 del 2013, mentre il fondo straordinario per la prima infanzia è passato dai 100 milioni del 2008 a zero».
Numeri che scavano nel cuore e nella memoria, andando a collegarsi alle cronache che un anno fa arrivavano dalla vicina Grecia, altra colonna dell’Occidente lasciata alla deriva, con un grave peggioramento della qualità dell’infanzia in seguito alla crisi economica che ha travolto il Paese e un crescendo di bambini malnutriti le cui notizie arrivavano sulle nostre coste in un misto di incredulità e vaga preoccupazione.
Anche adesso che numeri della stessa natura ci guardano dall’interno dei nostri confini, dalla finestra dei nostri vicini, non sembrano muovere grande scalpore. Eppure, dopo cinque anni di crisi non dovrebbero coglierci impreparati. Dopo cinque anni non è più emergenza, sta scadendo nella prassi. La crisi non è cieca, piuttosto ci vede benissimo e sa chi colpire: i più deboli. Eppure, proprio nella crescita della disuguaglianza sta uno dei grandi motori di questa profonda débâcle, sociale prima che economica. Come recentemente formalizzato in un teorema dal premio Nobel dell’economia Joseph Stiglitz, è l’eccessiva disuguaglianza ad uccidere la crescita.
Ma non l’abbiamo ancora imparato, la lezione è troppo scomoda da digerire. Solo dopo molte incertezze, il Fondo monetario internazionale si è trovato costretto dall’evidenza ad ammettere di aver sbagliato la ricetta del “salvataggio” della Grecia, con un’austerità da lacrime e sangue che ha arrecato più danni che benefici al Paese. La stessa franchezza non arriva però dalla Bce e dalla Commissione Ue, le due facce europee di quella troika che ha affossato la Grecia.
Ma anche nel Paese dell’Fmi ormai reo confesso, gli Stati Uniti, è un crescendo di contraddizioni. La finanza speculativa, dalla cui spregiudicatezza è partita la crisi che ancora ci perseguita, è di nuovo in grande spolvero. «Negli Usa i debiti per speculare sul listino di Wall Street – scrive oggi il Sole24Ore – ammontano a 384 miliardi di dollari: record storico, mai toccato prima. Neppure nel 2007. Una quantità enorme di debito, pari al Pil della Thailandia, ottenuto solo ed esclusivamente per speculare in borsa […] Non solo i mercati globali hanno superato i volumi del 2007 […], ma i comportamenti sono tornati esuberanti come allora. In alcuni casi di più. La ricerca di rischio è esasperata», com’è ovvio che sia: ormai la finanza sa che il modo per ricaricare su qualcun altro i costi dei propri azzardi può sempre essere trovato.
Si potrebbe accusare la storia di essere una cattiva maestra, ma è più giusto pensare a noi come degli allievi ingrati. In questi momenti, ripartire dall’abc sembra l’unica cosa possibile da fare. Questo punto zero non può che essere quello della sostenibilità e dell’idea di uno sviluppo sostenibile, che è «uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri», così come l’ha definito lo storico Rapporto Brundtland nel 1987. Oggi ci rendiamo conto di quanto la sostenibilità riguardi da vicino innanzitutto noi, le generazioni che oggi camminano su questa terra, piuttosto che quelle che ancora aspettano il loro turno. La responsabilità è nostra, e nostra soltanto la possibilità di azione. Rimbocchiamoci le maniche.
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