Il capitalismo è sotto assedio, scriveva Michael Porter nel 2010. Il rapporto tra impresa e società, così come è impostato oggi, rischia di fallire, afferma McKinsey in un recente articolo apparso sul blog della società di consulenza.

Michael Porter (docente universitario di strategia e management, consulente di numerose multinazionali) e McKinsey: non esattamente esponenti di movimenti antisistema. Siamo di fronte a un cambio di passo e di paradigma nei modelli di sostenibilità?

Andiamo con ordine. Porter, padre della teoria del valore condiviso (shared value) attiva uno spunto molto interessante. La responsabilità sociale dell’impresa non si limita alla condivisione del valore creato, ma alla creazione di valore condiviso. Ovvero, il rapporto con gli stakeholder, con gli interlocutori primari dell’impresa stessa, non deve essere basato sulla distribuzione di utili a fini filantropici (in sintesi, beneficienza) ma sull’integrazione della logica degli stakeholder dentro le strategie core. Solo così è possibile attivare processi di innovazione (sociale): un’impresa che opera in un contesto solido (e contribuisce a fertilizzarlo) è davvero sostenibile e acquisisce vantaggio competitivo. Ciò sposta il paradigma della CSR da una logica di giving ad una di coprogettazione con gli stakeholder. La domanda che gli stakeholder pongono all’impresa non è più “quanto puoi darmi?”, ma “cosa puoi darmi?”. La domanda che l’impresa pone ai suoi interlocutori sul territorio non è più “che cosa vuoi che io faccia per te?” ma è “di che cosa hai bisogno tra ciò che possiedo, ovvero che cosa posso darti di quanto ho di mio per crescere insieme?”. L’impresa genera (dovrebbe generare) una piena condivisione delle proprie risorse tangibili e intangibili con la società, per contribuire ad un tempo (attraverso la creazione di ricchezza) a risolverne i bisogni. Il valore condiviso è dunque un’evoluzione (necessaria) della CSR classicamente intesa, un approccio positivo (più che protettivo o difensivo) applicabile in particolare a specifiche aree di attività aziendale. La pratica più comune, ad esempio, è legata alla gestione della catena di fornitura. Grandi imprese (come General Electrics con Ecomagination o Enel con Enel Lab) selezionano progetti di impresa o start up compatibili con la propria catena del valore per attivare processi innovativi dentro il proprio business (nei casi citati a vantaggio di energie rinnovabili, smart grid, stoccaggio di energia, automazione, digitalizzazione e sistemi di comunicazione).

Marks and Spencer, gruppo che conta fornitori in 70 paesi e circa 2 milioni di persone che operano nella propria catena di fornitura ha elaborato il Plan A (sottotitolo: “there is no Plan B”), ovvero 180 impegni cui ottemperare entro il 2015 (di cui 138 già raggiunti) con obiettivo di diventare «the world’s most sustainable major retailer». Tra le azioni avviate è stato messo a punto un fondo di investimento (del valore di 50 milioni di sterline in 5 anni, destinati a 200 fornitori e 10.000 agricoltori) per promuovere innovazione sostenibile lungo tutta la filiera. Processi più efficienti per il gruppo e contemporaneamente innovazione di prodotto e di processo per i fornitori. Risultato: attivazione di nuove tecnologie, soluzioni per la riduzione della carbon footprint e del recupero di efficienza (anche economica) presso alcuni fornitori.

Secondo spunto: un paio di mesi fa McKinsey ha pubblicato un articolo che ha fatto discutere gli addetti ai lavori: è finita l’epoca della CSR, il futuro è nell’”external engagement integrato”. Chi governa l’impresa, scrive McKinsey, ha bisogno di un nuovo approccio per affrontare le esigenze dell’ambiente esterno, integrando tali issues ad ogni livello per costruire solide relazioni a rete con il mondo circostante. La CSR ha fallito, secondo McKinsey, perché confinata in uffici e iniziative slegati dal business, ad alto rischio di deriva dalla realtà, con un approccio solo difensivo e con un respiro di breve periodo. Il mondo dell’impresa è oggi sotto osservazione da parte dell’opinione pubblica, sempre più “watchdog” del rispetto di perimetri e parametri etici (anche grazie ad un utilizzo intelligente dei social media). Pertanto l’external engagement integrato, nuovo approccio alla responsabilità d’impresa, deve essere parte integrante del processo decisionale (e non più “altro rispetto al business”, come spesso accade oggi), secondo i seguenti step: una consapevolezza del possibile contributo dell’impresa alla società, una conoscenza approfondita degli stakeholder, una gestione sistematica dentro i processi di business e un approccio radicale alla comunicazione con il mondo esterno. L’external engagement integrato concerne dunque ogni decisione dell’impresa e si mimetizza nei processi e nelle azioni di business.

Infine, una terza annotazione. La versione G4 delle linee guida GRI, presentate ad Amsterdam pochi giorni fa, introduce alcuni elementi ambiziosi nel sistema di rendicontazione (e indirettamente di governo) delle imprese. Oltre a porre criteri più stringenti di definizione della materialità del reporting (ovvero di ciò che realmente è importante non tanto per l’impresa in sé, quanto per il suo rapporto con gli stakeholder, con il mondo esterno), il G4 introduce un modello di governo dell’impresa in relazione strutturata l’ecosistema in cui opera (a partire proprio dal rapporto con i fornitori). Gli aspetti materiali dovranno essere quelli che riflettono “the organization’s significant economic, environmental and social impacts; or that substantively influence the assessments and decisions of stakeholders”.

Porter e il rapporto tra business e bisogni sociali, McKinsey e l’engagement esterno integrato, il G4 e la ridefinizione dei confini della sostenibilità d’impresa. Tre indizi fanno una prova: il baricentro decisionale dell’impresa si sta muovendo verso l’esterno. Il focus dei processi strategici si sta spostando rapidamente verso la società nel suo complesso (comprensiva dello spirito del tempo e del luogo) non più rappresentata solo da alcuni stakeholder selezionati dall’impresa stessa ma da una sintonizzazione sulle istanze sociali diffuse. Il successo dell’impresa dipende sempre più dalla relazione di valore con il milieu, con il contesto esterno. L’ombelico dell’impresa è ora fuori dall’impresa stessa, in un mercato non più composto solo da clienti (di cui l’impresa conosce tutto) ma da stakeholder (di cui l’impresa dovrebbe conoscere tutto), in grado di influenzarne le strategie tanto quanto i clienti influenzano l’offerta. Non un’impresa che “prende” alla società (risorse naturali, capitale umano, ricavi), ma un’impresa che dà (risposte) alla società. Non più l’impresa che entra nella società (per trovarvi poi una cittadinanza e una legittimazione attraverso strategie di CSR), ma la società che entra nell’impresa. Chi saprà cogliere questa variazione nell’approccio alle pratiche di sostenibilità, potrà acquisire un vantaggio competitivo (o meglio, un vantaggio collaborativo) nei paradigmi economici che verranno.

CSR 2.0. Scritto da Giovanni Pizzochero

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