Già all’epoca dell’Umanesimo Civile, venne ad emergere la figura del cd. mecenate, ovvero un imprenditore che pone risorse e know-how imprenditoriale al servizio di una causa di interesse collettivo.
Il mecenate agiva all’interno di un modello di civiltà cittadina, governato dalla democrazia partecipativa, e di un’economia di mercato in cui vigeva il principio di reciprocità, l’orientamento dell’attività economica allo sviluppo – per dovere di responsabilità anche nei confronti delle generazioni future – e basata sul principio di libertà d’impresa.
Con il passaggio ad un’economia di mercato di tipo capitalistico, orientata alla massimizzazione del profitto generato dall’attività imprenditoriale, è nata una nuova figura, quella del capitalista-filantropo. Con la filantropia di impresa, che il più delle volte si esplica nello strumento della fondazione, il tentativo è quello di mettere in campo azioni in grado di soddisfare bisogni fondamentali o di aiutare persone svantaggiate, azioni mosse da sentimento compassionevole e non dal riconoscimento di uno specifico diritto di cittadinanza, come invece accadrà più avanti (metà del XX secolo) con la nascita del welfare state.
L’introduzione del tradizionale modello di Stato sociale, così come conosciuto oggi, ha comportato una responsabilizzazione in capo solamente all’apparato statale delle questioni legate alla sfera sociale della popolazione.
Tuttavia, oggi, con i crescenti costi del welfare state, da un lato, e la diversificazione dei bisogni di natura sociale dei cittadini, il sistema tradizionale è diventato insostenibile. Si richiede, dunque, un ripensamento del modello di welfare che sia inclusivo, capacitante e plurale. Sia dal lato della domanda, perché in grado di rispondere ad una pluralità di esigenze estremamente eterogenee, sia da quello dell’offerta, gestendo quest’ultima attraverso una pluralità di attori tra loro integrati e coordinati nel loro agire: Stato, Terzo settore e imprese for profit.
In quest’ottica, la figura del capitalista-filantropo muta nelle sue caratteristiche genetiche: non si può più affermare, infatti, che l’azione imprenditoriale sia meramente quella di generare profitto, ridistribuito poi dal filantropo-capitalista attraverso un’azione di natura "osmotica” (da "chi ha di più” a "chi ha di meno”). La funzione tradizionale filantropica d’impresa, oggi, per essere adeguata alle mutate esigenze di natura sociale della nostra società deve fare riferimento al concetto di shared value, ovvero alla creazione di valore condiviso. In tal senso, l’attività di natura sociale messa in campo dall’impresa non è asincrona rispetto all’attività imprenditoriale core e l’interesse dell’impresa trova aree di sovrapposizione rispetto ai bisogni della società.
La filantropia di impresa diviene, così, un’attività che assume un valore estremamente differente rispetto a come veniva concepita in passato e da "costo” passa ad essere un "investimento” e, in quanto tale, richiede di essere sviluppata strategicamente.
Tre le strade principali individuate in tal senso: a) gestione diretta delle erogazioni (tramite l’eventuale creazione di un ufficio interno dedicato); b) costituzione di un soggetto non profit per la gestione delle attività (solitamente una fondazione); c) utilizzo di un intermediario filantropico, come ad esempio una fondazione di comunità.
Per uno sviluppo in tale direzione della filantropia di impresa è necessario confrontarsi con due aspetti centrali: da un lato, quello dell’ibridazione con il sistema della finanza. I nuovi strumenti finanziari di impact investing, ad esempio, sono attività di investimento che mirano a generare non solo un ritorno economico per gli investitori, ma anche (e soprattutto) un impatto di tipo sociale (ed ambientale) (cd. blended value). Intraprendere tali percorsi in ottica strategica di filantropia di impresa significa, quindi, riuscire ad unire l’azione filantropica con l’orizzonte temporale di medio/lungo periodo richiesto dall’investimento.
Infine, mentre un tempo la risposta messa in campo dall’azione filantropica di impresa era esaustiva in quanto sufficiente a soddisfare bisogni di status dell’imprenditore-filantropo, oggi tale attività ha bisogno di evidenziare la sua capacità di generare outcome positivi e duraturi per i territori/comunità di riferimento. Ciò rende, pertanto, necessario individuare degli indicatori in grado di parametrizzare e valutare l’outcome prodotto, affinché sia possibile per l’imprenditore-filantropo mostrare la capacità di incrementare i livelli di benessere dei beneficiari dell’azione filantropica.
Paolo Venturi
esperto di: Economia Sociale, Cooperazione, Impresa sociale, Innovazione sociale, Non Profit