Intervista ad Attilio Oliva, presidente dell’Associazione Treellle. Gli investimenti più urgenti riguardano «la qualità della scuola e l’edilizia scolastica». I numeri da cambiare. Scuola, università e ricerca. L’Italia nel confronto internazionale è il titolo di uno studio realizzato dall’Associazione Treellle (dalle “elle” di Life Long Learning, l’apprendimento permanente) che, dati alla mano, analizza la situazione della scuola, dell’università e della ricerca in Italia. A partire dalla spesa pubblica nel settore. Che, spiega Attilio Oliva, presidente di Treellle, «non è per niente bassa». E sull’aut aut del neoministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza (“Reinvestire nella scuola pubblica o mi dimetto”), Oliva dice: «È normale che un nuovo ministro chieda più soldi, i soldi fanno piacere a tutti». Ma gli investimenti più urgenti a suo parere riguardano «la qualità della scuola e l’edilizia scolastica». Prima mossa necessaria: «Ridurre il numero degli insegnanti e premiare i più meritevoli».
Lidia Baratta
Come emerge dallo studio “I numeri da cambiare”, la spesa per la scuola in percentuale sul pil in Italia è del 3,4%, mentre la media Ue è del 3,6 per cento. Non c’è una differenza enorme. Stessa cosa per l’università: 1% contro 1,4 per cento. Perché, allora, si dice sempre che nel nostro Paese bisogna investire di più nell’istruzione? Lo stesso ministro Carrozza ha detto di recente che se non vengono destinati nuovi fondi alla scuola è pronta a dimettersi...
Tutti i nuovi ministri chiedono più soldi. Ma in un clima di deficit come quello che stiamo vivendo l’atteggiamento generale di chi ci governa è quello di contenere la spesa pubblica. È chiaro che più soldi fanno piacere a tutti, ma risorse nuove da mettere in un settore devono essere levate a un altro. Eppure l’Italia per l’istruzione non spende poco. Anzi: la spesa media per studente è superiore del 10% rispetto alla media europea. Le cose in cui si dovrebbe investire sono invece la qualità degli insegnanti e la qualità dell’edilizia scolastica.
Come giudichiamo i nostri insegnanti rispetto ai colleghi stranieri?
Basta guardare ai risultati dell’apprendimento degli studenti, che a loro volta sono il risultato della qualità dell’insegnamento. A livello di preparazione, i nostri studenti sono sotto la media dei Paesi Ocse. Con questi dati possiamo dire che il livello degli insegnanti italiani è più basso della media Ocse. L’altra spiegazione possibile è che i nostri ragazzi sono meno intelligenti degli altri, il che non mi sembra vero.
Dalla ricerca dell’associazione Treellle viene fuori però che i nostri insegnanti hanno una retribuzione oraria minore rispetto alla media Ue. La scarsa qualità dell’insegnamento potrebbe dipendere da questo?
Il basso livello remunerativo deriva dall’eccesso del numero di insegnanti, che mangiano tutte le risorse a disposizione. Non a caso il nostro rapporto studenti/insegnanti è più basso rispetto al resto d’Europa. In questo modo tutti vengono pagati poco. La soluzione invece dovrebbe essere quella di pagare meglio gli insegnanti più meritevoli. Ma non viene fatto.
Partendo dal referendum che si è svolto a Bologna, quale pensa che sia il ruolo delle scuole paritarie all’interno del sistema scolastico italiano?
Quello delle paritarie è un problema gonfiato per ragioni ideologiche. Le paritarie in Italia non sono più del 5% del sistema scolastico. Quindi rappresentano un problema modesto. Soprattutto se si pensa che stanno progressivamente chiudendo perché non ce la fanno a tirare avanti, visto che le famiglie non sono più disposte a spendere tanto. Detto questo, la legge Berlinguer dice che tra scuole pubbliche e cosiddette scuole paritarie non c’è alcuna differenza teorica. Fanno tutte parte del sistema di istruzione pubblico. Ma per ragioni ideologiche l’Italia, come la Germania, ne ha poche. In altri Paesi come la Francia o l’Olanda rappresentano invece il 20 per cento del sistema scolastico.
La recente sentenza del Tar che ha bocciato i corsi di studi esclusivamente in lingua inglese al Politecnico di Milano apre una questione sull’utilizzo dell’inglese nel nostro sistema educativo. Quale potrebbe essere per lei la soluzione?
La soluzione, come si può immaginare, sta nel mezzo. Anche in Francia c’è un grande dibattito culturale sullo stesso tema. Il governo vuole che tutti gli studenti francesi studino l’inglese, ma l’Accademia di Francia non è d’accordo. La lingua inglese è l’esperanto dei nostri tempi, serve a leggere le pubblicazioni scientifiche o a lavorare all’estero. Altrimenti ci chiudiamo in un localismo e in un provincialismo assurdi. Ma bisogna coltivare anche l’italiano, senza assumere posizioni estreme.
Ma i nostri insegnanti sono pronti a concentrarsi sull’inglese?
Tra i professori universitari moltissimi parlano e conoscono molto bene l’inglese. Per gli insegnanti scolatici invece è il contrario. In teoria la lingua inglese è insegnata nelle nostre scuole, ma di fatto non è così. Già alle primarie non ci sono insegnanti preparati. Né si vogliono assumere gli insegnanti madrelingua perché i sindacati si oppongono. E questo porta a una scarsa conoscenza dell’inglese da parte dei nostri ragazzi rispetto ai coetanei europei.
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