Grazie al lavoro di Giacomo Cuscunà abbiamo la possibilità di capire come stanno vivendo quattro giovani che, da un giorno con l’altro, si sono ritrovati nel mezzo di un conflitto terribile come quello siriano. Sono un ragazzo di 23 anni che ha combattuto per otto mesi e ora lavora con i giornalisti assieme all’Esercito Siriano Libero, un ragazzo di 27 anni, di origini molto modeste, che nei mesi da rifugiato in turchia, nonostante le difficoltà ha perseguito il suo sogno di imparare l’inglese e che ora è ritornato in Siria con la propria famiglia e infine due ragazze di 19 e 27 anni, infermiere volontarie in una piccola clinica nella città di Aleppo.
di Chiara Maffioletti
“Ero stanco di pistole, fucili, bombe e tutto il resto, ora lavoro qui”. Hanas, 23 anni, è uno dei ragazzi che collaborano con l’Esercito Siriano Libero (Esl) e che accolgono e registrano i giornalisti stranieri che entrano in Siria attraverso il posto di confine di Bab al-Salam, nel nord del Paese. “Ho combattuto per otto mesi in diverse aree: Aleppo, A’zaz e zone montuose. La mia brigata si chiamava Tempesta del Nord ed eravamo per lo più ragazzi di A’zaz (una cittadina siriana vicina al confine – ndr) o compagni di università”.
Hanas studiava letteratura inglese presso l’università di Aleppo e mentre racconta la sua esperienza nei ranghi dell’Esl si interrompe lasciando spazio ai ricordi da studente e alle critiche letterarie su opere di Eliot, Shakespeare, citando anche Russeau, che secondo lui scrive con uno stile molto affascinante: “Man is born free, and everywhere he is in chains (l’uomo è nato libero, e ovunque s trova in catene – ndr).
Hanas, capelli radi sulla nuca e volto incorniciato da un accenno di barba, a combattere non ce la faceva più. Sorride e confessa: “qui è più facile. Abbiamo internet e posso chiacchierare con le persone”. La vita al fronte invece è molto diversa. “Rimanevamo in prima linea settimane, anche un mese, e poi tornavamo a casa per lavarci e riposare” spiega.
Con le prime manifestazioni pacifiche ad Aleppo e l’inizio della repressione violenta del regime, Hanas decise di unirsi ai ribelli. Dopo quattro periodi di addestramento ha imbracciato il fucile ed è diventato un cecchino. “Quando la guerra finirà voglio finire gli studi e poi lavorare come reporter o fondare una casa editrice o una testata giornalistica” conclude un po’ sognante, guardando il soffitto.
Anche Muhammad, 27 anni, è stanco della guerra. “Prima eravamo poveri, ma eravamo felici” afferma mentre beve un caffè speziato al cardamomo sulla terrazza della casa dei suoi genitori, dove è ritornato da una decina di giorni. Ora abita in un piccolo appartamento improvvisato con mattoni e cemento. “Adesso non abbiamo più nulla” conclude.
Muhammad aveva lasciato la Siria nel marzo 2012 e per un anno aveva vissuto da profugo nel campo di Kilis, assieme a sua moglie Fatima e a suo figlio Ahmad di 6 anni. Le notizie dai suoi familiari rimasti nel villaggio arrivavano a stento: “a Kafar Yahmur i combattimenti sono stati terribili, potevamo raccogliere da terra a mani piene i bossoli esplosi” racconta sua madre.
Quando la guerra è cominciata il padre di Muhammad gli aveva detto di partire e andare in Turchia per sfuggire alle violenze: in una notte dieci dei suoi cugini erano stati falciati dall’esercito in un’imboscata poco fuori dal villaggio e la situazione peggiorava di giorno in giorno.
Mentre Muhammad oltrepassava il confine due dei suoi tre fratelli maggiori cominciavano a organizzarsi. Prima manifestazioni pacifiche nei villaggi attorno a Kafar Yahmur, poi le armi e la brigata al-Furqan che rappresenta ancora oggi uno dei punti di riferimento dell’Esl nell’area settentrionale della provincia di Idlib.
Muhammad, dopo aver finito la scuola elementare, non aveva proseguito gli studi e aveva cominciato a svolgere lavori umili nella zona. La sua condizione economica gli permetteva a malapena di provvedere alla sua famiglia e la guerra ha reso tutto ancora più difficile, costringendolo a fuggire. Ma il suo sogno, quello di imparare l’inglese, lo ha portato avanti nonostante le mille difficoltà. “Nei dodici mesi passati a Kilis ho studiato ogni giorno. Ascoltavo le notizie della Cnn e delle altre emittenti straniere e ora, con l’aiuto di alcuni amici che mi hanno fatto da insegnanti, il mio inglese mi permette di parlare e capire”.
Muhammad, dopo un alterco con alcuni poliziotti nel campo profughi, era stato trasferito ad Adana. “La vita nel campo di Adana era impossibile. Avevamo fame, non c’era abbastanza cibo e mia moglie ora è in cinta. Così abbiamo deciso di tornare a casa”. Nonostante la guerra. E Con una nuova bambina in arrivo.
Nour e Fatima, 19 e 27 anni, combattono la guerra cercando di aiutare chi della guerra è vittima. La clinica dove lavorano è piccola e si trova sul retro di un condominio bombardato dal regime, ora rifugio per alcune famiglie di profughi, nel quartiere di Jamiah Al-Zahra’a, nella periferia nord di Aleppo. “Abbiamo cominciato due mesi fa” racconta Nour. “La situazione è molto difficile, non abbiamo aiuti da nessuno e le medicine, difficili da trovare e costose, le compriamo con i nostri soldi”. Fatima, camice bianco e velo azzurro a coprirle i capelli, racconta come alcuni dei medici che collaboravano con loro siano stati uccisi: “probabilmente quando gli shabbiha (persone, anche ex criminali, al soldo di Bashar al-Assad – ndr) hanno saputo del loro coinvolgimento li hanno eliminati”.
La clinica, che prima era una normale casa, è buia. Due stanze con alcuni lettini da ospedale e i bagni. Due scatoloni pieni di medicine in un angolo. E’ Nour a chiarire che quelle medicine “sono inutilizzabili. Vengono dalla Turchia e non sono buone: le mandano alawiti (la stessa comunità religiosa del presidente siriano Bashar al-Assad – ndr) che vogliono avvelenarci”.
L’escalation delle violenze ha acutizzato le paure e i pregiudizi settari tra le diverse comunità siriane, e anche tra i giovani molto spesso gli odi su base religiosa sono forti.
In Siria ogni ragazzo e ogni ragazza combatte la propria guerra. Chi imbracciando un fucile, chi tentando di sopravvivere scappando dalle bombe, chi cercando di aiutare le persone che hanno maggiore bisogno. Sperando prima o poi di tornare alla propria vita di ventenne qualunque
Giacomo Cuscunà