Dopo settantamila morti e oltre mezzo milione di profughi, gli Stati Uniti preparano la strada per un intervento in Siria. Le ragioni di un conflitto che l’Occidente non vuole vedere.

L’intervento americano potrebbe essere una via d’uscita o segnare un ulteriore balzo verso il fondo. In ogni caso, quando si scioglierà il “nodo siriano” in Medio Oriente nulla sarà più come prima. La Siria è un paese complesso. Etnicamente disomogeneo: la popolazione è formata per il 90% da arabi e per il 9 da curdi (concentrati nella provincia nord-orientale di Hasakah). Ci sono armeni, circassi, assiri e turcmeni. Gli arabi sono a loro volta assai differenziati: nelle province orientali è ancora fortissima la struttura tribale, e forti sono le differenze tra popolazione rurale e quella urbana. Non sono da dimenticare, infine, gli oltre 400.000 palestinesi da decenni rifugiati nel paese e i 480.000 iracheni di recente immigrazione. Sul piano religioso si registra una complessità ancora maggiore. I musulmani sunniti costituiscono all’incirca tre quarti della popolazione. Il resto è formato da un mosaico composto da alawiti (12%), drusi (3%), cristiani (10%) suddivisi in numerose chiese.

I confini della Siria moderna sono stati, arbitrariamente, tracciati alla fine della prima guerra mondiale. Il Paese ottenne l’indipendenza alla fine della seconda. Da quel momento e fino al ‘63 sarà caratterizzato dall’instabilità politica e da una serie ininterotta di colpi di stato. La svolta cominciò, appunto, nel ‘63, quando il partito nazionalista panarabo Ba’th prese il potere e si perfezionò nel ‘70, quando il ministro della difesa Hafiz al Assad, un ba’thista di religione alawita, prese il potere senza spargimenti di sangue. Hafiz al Assad reggerà le sorti del paese sino alla sua morte nel 2000. Il potere allora passò al figlio Bashar. Nei suoi 30 anni di “regno”, Hafiz formò il suo potere in base all’ideologia laica ba’thista, appoggiandosi alla minoranza alawita e cooptando le minoranze cristiane. A cementare la sua tenuta furono le forze armate e i Mukhabarat (servizi di sicurezza), controllati dalla minoranza alawita e comandati da famigliari di al Assad. Lo studioso Roger Owen, proprio per descrivere la struttura del potere siriano, ha coniato il termine Presidential Security State. Infatti, a Damasco, ufficialmente governava un “presidente a vita” in nome del progetto di riforma ba’thista. In realtà, si trattava di una dittatura fondata su una oligarchia familistica, appoggiata alla minoranza alawita e che controllava il paese tramite un ristretto “circolo del potere”, ai vertici di politica, economia e forze armate. Il regime aveva due grandi nemici. Il primo, posto fuori dai confini, era Israele: il “nemico alle porte”, permetteva di polarizzare l’opinione pubblica e giustificare la militarizzazione. Il secondo nemico, interno, era invece costituito dall’islamismo militante sunnita. Il confronto armato con i movimenti legati ai Fratelli Musulmani raggiunse il suo apice nel 1982 con una brutale repressione ad Hama. Nei decenni successivi, il regime tenne sotto controllo il pericolo islamista interno con un pervasivo stato di polizia e con le timide aperture di Bashar.

Quando Bashar al Assad prese il potere nel 2000, le aspettative della popolazione siriana e della comunità internazionale erano molto forti. Si sperava in riforme economiche sociali e politiche ma, sopratutto, in aperture democratiche sul piano interno e di pace su quello internazionale. Invece, a parte qualche operazione di “maquillage politico”, Bashar apparve ben presto determinato a proseguire nella tradizione dittatoriale paterna. Il regime si legò a doppio filo all’Iran e al movimento libanese Hizbollah, godendo del discreto appoggio internazionale di Russia e Cina. In tal modo, Damasco divenne la chiave di volta della “Mezzaluna sciita”, le cui punte sono la roccaforte di Hizbollah nel sud del Libano e Teheran. Intanto, la presa sul paese dell’oligarchia al potere rimaneva ferrea e rapace.

A dicembre 2010, come è noto, con l’immolazione di Mohamed Bouazizi in Tunisia, comincia la cosiddetta Primavera Araba. Crollano i regimi di Mubarak in Egitto e quello di Gheddafi in Libia. L’onda delle rivolte arrivò in Siria a marzo 2011. Il sangue iniziò a scorrere a Dera’a, nel sud, ma ben presto manifestazioni e repressioni si estesero a tutto il paese. Le motivazioni politiche, economiche e sociali della rivolta sono per lo più comuni a quelle degli altri paesi della “Primavera Araba”, aggravate da un regime oltremodo repressivo, pervasivo e dittatoriale. In Siria, però, rapidamente riappare lo spettro islamista e si delinea una contrapposizione tra forze governative e movimenti armati sunniti. Inizialmente, il regime accompagna la repressione con alcune aperture politiche e con la sostituzione di alcune figure di regime compromesse. Rapidamente, però, lo scontro si alza di livello: il regime si appoggia a forze paramilitari come gli shabiha, che agendo fuori da ogni controllo si rendono autori di azioni infamanti. A colpire indiscriminatamente i civili entrerà poi in campo l’aviazione, utilizzata per bombardamenti sui centri abitati. Intanto, alle milizie antigovernative che iniziano a liberare villaggi e quartieri, si affiancano agguerrite formazioni di stampo jihadista, come Jabhat al Nusra. Dopo i primi mesi di incertezza, la diserzione inizia a dilagare tra le truppe e figure di primo piano del regime defezionano o sono uccise in spettacolari attentati. Il generale Manaf Tlas, influente amico d’infanzia di Bashar, fugge in Europa, mentre nel luglio 2012 sono uccisi in un attentato il ministro della difesa e il vicecomandante delle forze armate, nonchè cognato del presidente.

Da manifestazioni di piazza e sporadici scontri, i combattimenti i investono le città più importanti del paese. Idlib, Aleppo, Hama e Homs sono devastate e le conseguenze sulla popolazione sono gravissime. Le forze antigovernative, ad esclusione di vari gruppi salafiti, si riuniscono formando la Free Syrian Army, con centro di comando in Turchia. Sul piano politico, le forze dell’opposizione si organizzano in Turchia, ma sono molto divise e ci sono seri dubbi che abbiano una effettiva rappresentanza popolare. Tant’è che solo nel novembre del 2012, in Qatar, si riuniscono nella Coalizione Nazionale per le Forze Rivoluzionarie e dell’Opposizione: in realtà si tratta di un ombrello politico che racchiude una serie di formazioni di varia natura, tra cui il laico e filo-occidentale Consiglio Nazionale Siriano ma anche i Fratelli Musulmani. Di fatto però, sia il fronte politico che quello militare sono divisi. Sul piano politico è da segnalare l’esistenza di numerosi movimenti di varia natura che agiscono indipendentemente, in primis il Comitato Supremo Curdo. Sul piano militare, ad affrontare i combattimenti più duri sono le milizie salafite e jihadiste, rinforzate da volontari, fondi e armi provenienti da Qatar e Arabia Saudita. Peraltro, sul terreno, si sono già verificati numerosi scontri tra le diverse milizie, soprattutto tra quelle islamiste e i comitati di difesa locali. Inoltre, nel paese imperversano agguerrite bande di criminali comuni e contrabbandieri.

Il regime, pur contando sull’appoggio materiale iraniano, russo e di Hizbollah, ormai è ridotto ad una strategia di sopravvivenza e mira a mantenere il controllo dei grandi centri urbani. Nel caso la situazione peggiorasse, Bashar potrebbe tentare di ritirarsi nelle province del nord ovest, dove è concentrata la popolazione alawita. Inoltre, a complicare la situazione, concorre il fatto che il regime dispone di larghi quantitativi di armi chimiche, per ora fortunatamente inutilizzate e tenute sotto controllo.

Sino ad oggi, la comunità internazionale è riuscita a fare ben poco. Nel settembre 2011 la Lega Araba ha sospeso la Siria, il cui regime è stato accusato di una repressione troppo violenta, ma non è andata oltre. A nulla sono valsi gli sforzi di due rappresentanti speciali dell’Onu, Annan e Brahimi: non a caso, è proprio in sede Onu che il regime siriano conta i suoi due più preziosi alleati, Mosca e Pechino. Ambedue temono che un cambio di regime possa favorire gli Stati Uniti, anche se in realtà sul terreno il vero scontro è tra Arabia Saudita e Qatar, da un lato, e Iran e Hizbollah dall’altro. In altri termini, la Siria è diventato terreno di scontro tra il “blocco sunnita” ed il “blocco sciita”. Il problema è che questa contrapposizione ha ormai esasperato le divisioni settarie all’interno del paese, esaltando la dimensione di scontro confessionale. Non a caso, i due grandi timori degli osservatori internazionali sono rappresentati dalla “onda jihadista” e dalla “cantonizzazione”. Infatti, i movimenti politici moderati dell’opposizione, sul terreno, hanno forze armate limitate e si teme che al successo militare delle milizie jihadiste e salafite, caduto il regime, possa corrispondere una forte legittimità politica. In altri termini, i movimenti oltranzisti, complice l’appoggio di alcuni paesi sunniti, una volta vinto il regime facilmente si imporranno come principali attori politici. Dunque, larghe porzioni di territorio siriano potrebbero diventare emirati salafiti, con tutte le conseguenze del caso.

Il secondo grave timore è quello che il paese si divida in enclaves, di tipo bosniaco. Per ora, più che ad una formale secessione di alcune province del paese, si teme che curdi, sunniti, drusi e alawiti prendano il controllo delle aree dove ciascuna comunità è maggioritaria, dando vita ad entità indipendenti. A farne le spese sarebbero le varie minoranze, in primis i cristiani, ed è da considerare che già oggi fonti Onu stimano che da 1.5 a 2.5 milioni di siriani siano profughi, in parte fuggiti all’estero. Il tutto sarebbe poi esasperato dal fatto che la Siria rischierebbe facilmente di diventare il teatro di una proxy war tra i diversi paesi coinvolti. Dunque, se oggi la questione siriana rappresenta un grave problema internazionale, il rischio è che con la caduta del regime o il perdurare della guerra civile la situazione peggiori. La Turchia vede con preoccupazione l’arrivo di profughi e la nascita di movimenti armati curdi a ridosso dei suoi confini. In Iraq, la polarizzazione del conflitto settario tra sciiti-sunniti rischia di destabilizzare definitivamente il paese, peraltro stretto tra pressioni americane e iraniane. Nel fragilissimo Libano, Hizbollah si prepara al contraccolpo che seguirà al “dopo Assad”, che ne metterà in crisi legittimità politica e forza militare. Israele, considerato che la Siria ba’thista non rappresentava una reale minaccia strategica da decenni, teme che la caduta del regime apra la porta all’insorgere di movimenti ed emirati jihadisti che, sconfitto il regime, facciano della lotta allo stato sionista il loro successivo obiettivo.

In conclusione e in estrema semplificazione: il regime si aggrappa alla copertura politica russa, all’appoggio militare iraniano e al supporto della popolazione alawita. L’opposizione politica, oltre ad essere divisa, non ha una proiezione militare efficace. I movimenti salafiti, con scarso supporto popolare, si stanno conquistando la legittimazione politica con i successi sul campo. Intanto, però, la popolazione subisce enormi sofferenze ed il fragile mosaico etnico e religioso sta andando in pezzi: scomparse le istituzioni statali ormai da quasi due anni, si assiste ad una atomizzazione della società siriana, e la dimensione tribale, etnica e settaria è emersa come forza di aggregazione delle comunità locali. Sul piano internazionale, gli unici che potrebbero sbloccare l’impàsse sono gli Stati Uniti che però, fino ad ora, si sono limitati a fornire aiuti umanitari e a esercitare pressioni politiche, temendo che l’intervento armato diretto di Washington peggiori la situazione. Ma questo atteggiamento di apparente neutralità favorisce una situazione di stallo e lo sviluppo dei movimenti jihadisti. Dunque, c’è da aspettarsi che presto l’amministrazione americana giochi le sue carte “soft”, chiedendo l’imposizione di una no fly zone o iniziando a fornire apertamente materiali e supporto ai movimenti armati dell’opposizione moderata siriana. In ogni caso, a prescindere dagli effetti di queste iniziative, quando si scioglierà il nodo siriano, in Medio Oriente nulla sarà più come prima.

Giovanni Parigi

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