L’accesso difficile ai servizi sanitari e l’integrazione che non c’è. Ma anche la delicata posizione delle adolescenti di seconda generazione. Un saggio parla di queste e di molte altre cose.

Sulla copertina di questo interessante saggio sociologico c’è scritto che è “utile per gli studiosi dei processi migratori, pensato anche per gli operatori e istituzioni che lavorano con soggetti migranti”. In effetti, Donne e percorsi migratori di Mara Tognetti Bordogna (FrancoAngeli, 28 euro) è un libro di studio, densissimo di informazioni, citazioni e statistiche. Ma tra le righe del linguaggio accademico emerge, in maniera prepotente, una carica di umanità. Perché è di persone che si parla: donne che lasciano il proprio Paese per lavorare in Italia, reinventandosi una vita e, spesso, un’identità. Gli argomenti trattati sono moltissimi: di alcuni di essi abbiamo discusso con l’autrice, professore di Sociologia economica e del lavoro, che insegna Politiche migratorie presso l’Università di Milano-Bicocca.


Parliamo del rapporto delle donne migranti con la salute, argomento cui lei dedica un intero capitolo. Lei scrive che ricorrono poco ai servizi sanitari. Perché?

«Perché per loro la salute è un problema secondario, al quale non hanno tempo di dedicarsi. Lo fanno solo quando non ne possono fare a meno, per esempio durante la gravidanza. Questa mancata attenzione alla salute implica anche una minore prevenzione».


C’è un legame tra lo scarso ricorso alle strutture sanitarie e una mancanza di integrazione?

«Sì. Io sostengo, e le ricerche mi danno ragione, che sia un indicatore di scarsa inclusione. Accedere ai servizi sanitari, oltre che essere importante per la salute, contribuisce a includere le persone. Ognuno di noi, per la salute, è disposto ad accettare compromessi. E questo vale anche per le migranti che, indipendentemente dal proprio modello culturale di riferimento, in caso di malattia sono disposte a negoziare e accettare di cambiare alcune regole: per esempio, facendosi visitare anche se non c’è un medico donna. Questo consente loro di diventare più flessibili, ma anche di apprendere le regole di funzionamento del servizio sanitario e prendere dimestichezza con certe procedure: competenze che possono poi spendere in altri contesti. I servizi sanitari possono essere uno strumento di inclusione. Mettendo barriere e vincoli, come l’obbligo di denunciare i clandestini, l’Italia si fa un cattivo doppio servizio: intanto perché, se non si curano gli stranieri malati, si rischia di contagiare anche gli autoctoni. E poi perché non si aiuta questo processo di apprendimento».


Quindi se i migranti non ricorrono alla sanità pubblica la responsabilità è anche delle strutture?

«Sì, certo. Mancano moduli, segnaletica, indicazioni in altre lingue. Sarebbe importante promuovere le strutture sanitare presso gli stranieri, informarli sull’esistenza delle varie risorse. E, soprattutto, fare protocolli. Ne esistono per qualsiasi procedura, ma rispetto ai migranti non ci sono linee guida, indicazioni. Così gli operatori, anche quelli più volenterosi, si trovano in difficoltà, e non solo per un problema di comunicazione verbale, ma anche di apertura mentale, disponibilità. Uno sforzo era stato fatto negli anni ‘90, quando, in seguito al calo demografico italiano, molti consultori e ospedali, per scongiurare la chiusura, avevano cercato di incrementare l’utenza straniera. Poi questa tendenza ha subito un’inversione. Ma alcuni centri, per esempio L’Ospedale dei bambini Buzzi di Milano, dopo gli sforzi di quegli anni, è rimasto una struttura di riferimento per molte comunità».


Lei parla del fatto che i migranti si curino, a volte, in maniera non “ufficiale”.

«Sì, ipotizziamo che molti migranti, anche regolari, ricorrano a strutture clandestine. Penso ai laboratori di medicina cinese. Poi ci sono molte badanti dell’Est che si fanno arrivare i farmaci dai loro Paesi. E migranti provenienti dall’Africa che utilizzano erbe o terre. Ripeto: il nostro sistema sanitario non è ancora attrezzato per le esigenze degli stranieri».


Ma lei pensa che se lo fosse gli stranieri smetterebbero di fare ricorso ai sistemi di cura dei loro Paesi?

«Si tratta di attrezzare le nostre strutture con operatori stranieri, o anche italiani, che conoscano le pratiche diffuse all’estero. Immaginiamo solo che ruolo potrebbe avere un farmacista competente che, conoscendo ciò che viene usato altrove, adeguasse la propria offerta… Non è un caso che ci siano alcuni medici di base con un’alta utenza di stranieri. Non c’entra solo la zona della città in cui visitano, ma il fatto che riescano a instaurare un clima di fiducia con questi nuovi pazienti e che all’interno delle comunità ci si inizi a passare la voce».


Alla fine del volume lei affronta la questione degli adolescenti e del loro disagio psicologico, spesso sottovalutato.

«I ragazzi nati o cresciuti qui hanno sicuramente un vantaggio rispetto ai genitori. Ma siamo sicuri che i consultori siano in grado di gestire le criticità che riguardano le seconde generazioni? La migrazione comporta, tra i giovani, un forte disagio psicologico che si tende a sottovalutare. La normale tensione che si crea tra genitori e figli durante l’adolescenza, in situazioni migratorie diventa critica. È difficile accettare dei genitori che sono marginalizzati nella società in cui si cresce. Ed è peggio per i ragazzi ricongiunti, che si trovano davanti a un nuovo Paese, un nuovo gruppo di amici e “nuovi” genitori, che vivendo qui sono cambiati e, a volte, non sono nemmeno riconosciuti come tali. L’idea che un ragazzo si fa del padre e della madre, mentre sono lontani, si basa sulle rimesse che questi mandano e che fanno immaginare una situazione di benessere e ricchezza. Quando poi arrivano qui, i figli vedono le condizioni di marginalità, sfruttamento e sofferenza che i genitori vivono, e questo ha un impatto negativo sulla loro crescita».


Lei sottolinea che esiste una difficoltà maggiore per le ragazze.

«Se le adolescenti vivono all’interno di famiglie dove vige un forte modello patriarcale, che applica regole che magari non esistono più nemmeno nel Paese di origine (e mi riferisco ai Paesi più tradizionalisti come quelli del Nord Africa, l’India e il Pakistan), al momento in cui le giovani cercano di cominciare ad avere un’autonomia relazionale e affettiva, scattano grandi conflitti».


Sin dall’inizio del libro, lei mette in evidenza che le donne non migrano mai solamente per questioni economiche. Cosa vuole dire?

«Specie tra quelle che agiscono in prima persona, il progetto migratorio, ovvero che non si ricongiungono a un coniuge, emergono anche altri motivi: il desiderio di allontanarsi da un modello familiare non condiviso o da un marito che beve, per esempio… La ragione principale della migrazione, quella dichiarata, resta economica. Ma c’è sempre un secondo elemento legato alla ricerca di maggiore libertà e autonomia. Già negli anni ‘80 era emerso che tra le migranti c’erano più separate, divorziate e vedove: la migrazione era, ed è, un buon modo per prendere distanze dalla famiglia e dal Paese di origine, senza dover affrontare una rottura. Ma si tratta di motivazioni non dichiarate, che si evincono dai racconti delle migranti. Basta ascoltarle per veder emergere aspetti nascosti».

Gabriella Grasso

Partner della formazione

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