I nuovi dati Ocse sull’aumento delle disuguaglianze di reddito. La manifattura da riscoprire come via dello sviluppo passa per l’efficienza nell’utilizzo delle risorse.
Luca Aterini
«Il potere logora chi non ce l'ha» è una delle più note battute attribuite al recentemente scomparso Giulio Andreotti. Lo stesso si potrebbe dire del denaro, che come insegna la saggezza popolare non renderà felici, ma può rappresentare un buon ombrello per le intemperie della vita. A ricordarcelo ci pensa l'Ocse, con un nuovo dataset che analizza l'impatto sociale della crisi: «Le famiglie più povere - avvertono dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - tendono a perdere di più o guadagnare di meno delle famiglie più ricche».
Studiando l'evoluzione della disuguaglianza di reddito nei primi anni di questa crisi (dal 2007 al 2010), tenendo sempre conto dell'impatto delle tasse e dei trasferimenti, l'Organizzazione precisa che l'impatto medio varia non solo in base al reddito, ma anche a seconda della fascia d'età. «Tra il 2007 e il 2010, la povertà relativa del reddito medio nei paesi Ocse è aumentata dal 13 al 14% tra i bambini e dal 12 al 14% tra i giovani, ma è passata dal 15 al 12% tra gli anziani», sebbene in molti paesi - tra cui l'Italia - il numero di pensionati che non arrivano a fine mese sia cospicuo.
Guardando in dettaglio lo Stivale, in questi tre anni «il reddito disponibile dei 5 milioni di italiani che costituiscono il 10% più ricco del Paese si è ridotto dell'1% l'anno. Ma per i 5 milioni di italiani del 10% più povero del Paese, dove la carne viva del bilancio familiare è già esposta, il reddito si è ridotto del 6%. Sono riduzioni anno per anno, non cumulate - sottolinea la Repubblica - Questo significa che, in quei tre anni, nelle famiglie ricche il reddito si è ridotto del 3% [...] Ma per i più poveri, nello stesso periodo, sfiora il 20%», una differenza abissale.
Un risultato preoccupante, del tutto fuori da ogni logica di sostenibilità sociale: «Le politiche per promuovere l'occupazione e la crescita - ha sottolineato il segretario generale dell'Ocse, Angel Gurría - devono essere progettate per garantire l'equità, l'efficienza e l'inclusività. Tra queste politiche, la riforma dei sistemi fiscali è essenziale per assicurare che tutti paghino la loro parte».
La crisi, intanto, in Italia fa 6 volte più male ai poveri che non ai ricchi. Questo non incide soltanto sulla loro qualità di vita: gli individui a reddito medio-basso hanno una maggiore propensione al consumo, che adesso viene strangolata, portando a una diminuzione qualitativa degli acquisti e permettendo l'avvitarsi della crisi della domanda interna, alla quale non riusciamo a trovare una soluzione.
Quello della redistribuzione della ricchezza non è dunque un tema secondario nella pianificazione delle politiche per rivedere la strada dello sviluppo. L'altro mantra investe la manifattura, che pure ha registrato «5.600 fallimenti dall'inizio dell'anno - ricorda il Sole24Ore - riducendo in media il fatturato del 4,2% nei primi mesi del 2013».
«Se non correrà al più presto ai ripari - si legge sul quotidiano - l'industria europea rischia di venire soffocata dalla tenaglia cino-americana». Non convince però il richiamo all'intervento del commissario europeo Antonio Tajani, ieri all'European business summit, che tra i fattori che incidono sulla competitività europea del settore ha incluso la politica energetica e climatica, affermando che «la politica ambientale deve restare una priorità, ma la sua attuazione dovrebbe includere misure che riducano l'impatto negativo sull'industria».
In realtà, proprio una profonda conversione ecologica della manifattura europea potrebbe garantire un rilancio della competitività del settore, basato su un'alta efficienza nell'utilizzo delle risorse e non sulla compressione dei salari, che svilisce il capitale umano e non fa altro che aggravare quella spirale perversa che vede la più incolpevole fetta di popolazione trovarsi 6 volte più povera in un triennio senza nemmeno sapere perché.
La transizione verso la green economy non può essere (come qualcuno vorrebbe e altri temono) una nuova scusa per una shock economy "verde", per una nuova tratta sociale. La sostenibilità, se vuole avere solide basi future, deve partire da quella sociale, qui ed ora, e la green economy contribuirà a realizzare un mondo migliore solo se migliorerà la qualità della vita di tutti, ridistribuendo non solo l'energia e le risorse, ma anche il benessere, la cultura e la salute.