Nel 2003 ha vinto il premio Nobel per la Pace per il suo strenuo lavoro alla difesa dei diritti umani, una scelta che però le è costata una vita complicata e la lontananza da parte della sua famiglia.
Antonella Vicini
Shirin Ebadi, dieci anni dopo l’importante riconoscimento internazionale e quattro dopo le controverse elezioni presidenziali iraniane, vive a Londra in una condizione di esilio forzato, senza possibilità di vedere il marito e la sorella che sono a Teheran, liberi su cauzione. Le sue due figlie, invece, studiano in Europa; i suoi beni sono stati prima confiscati e poi messi all’asta. “Hanno provato a intimidirmi. Io ho risposto che amo la mia famiglia, ma la giustizia di più”.
Così a Roma, per una
lectio magistralis all’università Luiss Guido Carli sul tema “Rights and Civil Society in the Islamic World”, parla l’avvocato iraniano che sta segnando una parte importante della storia del suo Paese. La sua è una vita tutta dedicata alla giustizia, prima come giudice e come presidente del Tribunale di Teheran, poi, dopo il 1979 (da quando con la rivoluzione islamica il ruolo delle donne nella vita istituzionale del Paese è mutato sensibilmente) come avvocato con una particolare attenzione alla condizione dei bambini e delle donne: i soggetti più deboli nelle società islamiche. Anche se, ci tiene a ribadire: “non esiste un’equazione Islam uguale violazione dei diritti. Il problema del rispetto dei diritti umani c’è anche nei Paesi non islamici, mentre ce ne sono altri musulmani dove la condizione delle donne e delle istituzioni democratiche è migliore”.
Piuttosto esiste un modo strumentale di usare l’Islam e di applicare la Sharia. La soluzione politica è quella di separare lo Stato dalla Religione: “Il secolarismo è il primo passo per la democrazia”, spiega. E si capisce bene come le sue posizioni si pongano in uno scontro frontale con la Repubblica Islamica che Shirin Ebadi non teme a tratteggiare come una dittatura religiosa. Ciò che si comprende meno è, invece, come riesca a essere così determinata, nonostante le pressioni che lei e i familiari devono subire.
“Nel 2009, alla vigilia delle elezioni – ci spiega – ho lasciato l’Iran per tre giorni per partecipare a un convegno in Spagna. Il quarto giorno, quando era previsto il mio rientro, il mio Paese non era più quello di prima: molte persone erano state imprigionate, altre uccise; alcuni colleghi erano stati arrestati. Quelli di loro ancora liberi mi consigliarono di non rientrare, ma di andare alle Nazioni Unite per spiegare quello che stava accadendo. E il regime, che non poteva fare nulla a me, ha arrestato mia sorella e mio marito per spingermi a non parlare. Da quella data io faccio regolarmente relazioni all’Onu sulla situazione iraniana”.
“Anche oggi continuano a intimidirmi per voce di mio marito. Io ricevo minacce di continuo. Ma la mia risposta – prosegue – è che la morte è l’unica realtà garantita a tutti, quindi perché dovrei preoccuparmi? Difenderò i diritti umani finché sarò viva”.
La presenza in Italia di Shirin Ebadi è legata anche alla partecipazione al Festival d’Europa a Firenze, in cui interverrà oggi, ed è ancora più significativa perché arriva a un mese dalle elezioni presidenziali in Iran, su cui sono puntati gli occhi della platea internazionale. Dopo quanto accaduto nel 2009 e, soprattutto, dopo le rivolte che hanno sconvolto il Nord Africa e il Medio Oriente, si attende con ansia ciò che avverrà il prossimo 14 giugno. Ma, alla domanda se i giovani riempiranno di nuovo le strade, il Premio Nobel risponde che: “il governo è stato molto duro e ha oppresso molto violentemente la gente che scendeva in piazza. Per questo le persone oggi hanno paura. Inoltre, il regime ha già provveduto a fare controlli molti severi, anche sulla rete. Solo nei prossimi giorni riusciremo a capire se le autorità sono riuscite in questo modo a impedire raduni e manifestazioni di piazza”.
Quale quadro politico potrebbe uscire dalle urne?
Le elezioni in Iran non sono mai state libere. Il Consiglio dei Guardiani (che è formato dai dodici giureconsulti, sei decisi direttamente dalla Guida Suprema, sei indirettamente, ndr) è chiamato a decidere sulla legittimità dei candidati. Questo vuol dire che non è il popolo a scegliere. In ogni caso, adesso è presto per parlare. La registrazione dei candidati è cominciata ieri e durerà cinque giorni. E dopo cinque giorni il Consiglio dei Guardiani inizierà a valutare i nominativi. Fino a che non si annuncerà chi è stato legittimato è difficile farsi un’idea. Non sappiamo nemmeno se Hashemi Rafsanjani, che ormai rappresenta il fronte riformista, si registrerà o no.
Crede che ci sarà affluenza?
Nel 2009 si erano iscritte trecento persone e solo quattro sono state ritenute eleggibili. Di queste, una era il presidente e le altre tre (Mir Hossein Mousavi, Mohammad Karroubi, Mohsen Rezaee, ndr) facevano già parte dell’establishment. Nonostante ciò la gente ha scelto di votare il meno peggio, e il risultato è stato falsificato.
Il 14 giugno prossimo si tornerà alle urne con Mousavi e Karroubi ancora in carcere, senza aver subito alcun processo né essere stati condannati: ecco perché molti iraniani non andranno a votare.
Io personalmente, senza dare alcun consiglio, dico che non andrò a votare perché non voglio essere la marionetta del teatrino democratico del governo.
Non crede che col tempo, al di là dei controlli governativi, avrà la meglio la forza dei numeri: una popolazione che per il 70% è nata dopo il 1979 e che quindi non ha nel Dna la Rivoluzione Islamica?
Io so che lo scontento aumenta ogni giorno, perché oltre alle violazioni dei diritti umani c’è una situazione economica molto grave a causa delle sanzioni. So che le persone non hanno più neanche le medicine. E so che alla fine vince il popolo, ma quando e come non posso dirlo.