Probabilmente l’accordo non cambia la situazione sul campo, ma è comunque sintomatico. Nella notte tra martedì e mercoledì il segretario di stato americano John Kerry e il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, che si sono incontrati a Mosca, hanno raggiunto un’intesa e hanno chiesto al governo siriano e ai ribelli di negoziare una soluzione politica partecipando a una conferenza internazionale da organizzare “al più presto”.

I ribelli hanno accolto l’invito con freddezza, ricordando che l’uscita di scena di Bashar al Assad è una premessa essenziale per qualsiasi negoziato con il regime. Il governo, ostile a ogni compromesso con gli insorti che considera nient’altro che “terroristi”, non ha ancora commentato la proposta. Dunque è poco probabile che assisteremo alla conferenza ipotizzata da Washington e Mosca in quella che è la prima iniziativa comune tra i due paesi rispetto al conflitto siriano. Tuttavia l’improvvisa convergenza di intenti tra la diplomazia russa e quella statunitense testimonia un’importante sviluppo nelle rispettive posizioni.

Nonostante lo abbia negato ripetutamente, la Russia spera che Bashar al Assad resti al potere, per questioni di politica interna e perché Vladimir Putin si sente minacciato dalla possibilità che un movimento popolare riesca ancora una volta a sconfiggere una dittatura. Attraverso la vendita di armi e ricorrendo al veto su ogni forma di condanna del regime siriano da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Russia ha continuato a sostenere Bashar al Assad. Ora però Mosca, pur rifiutando la tesi secondo cui la caduta del regime dev’essere una condizione preliminare e non la conseguenza del negoziato, ha smesso di incoraggiare al Assad a restare al potere. In un certo senso sembra che la Russia non creda più nella possibilità di salvare il dittatore.

Dal canto loro gli Stati Uniti non sembrano più intenzionati ad armare l’insurrezione per paura di rafforzare le correnti jihadiste, e in fondo non credono che i ribelli abbiano la forza per rovesciare il regime. Per questo motivo Washington e Mosca vorrebbero favorire una soluzione di transizione, e hanno scelto di comune accordo di fare pressione rispettivamente sui ribelli e sul governo per avviare il negoziato.

In futuro i due schieramenti dovranno fare i conti con le minacce e i ricatti dei due paesi il cui appoggio è per loro indispensabile. In ogni caso né i ribelli né il regime si lasceranno comandare dai rispettivi alleati, e ammettendo che la conferenza internazionale abbia luogo non è chiaro quali potrebbero essere i risultati concreti.

In linea teorica si potrebbe trovare un accordo su un referendum o un’elezione generale su tutto il territorio siriano, ma in realtà una votazione non farebbe altro che mostrare le divisioni del paese e riproporre la spaccatura confessionale, che a sua volta produrrebbe presto una scossa in tutta la regione. L’unica speranza di preservare l’unità siriana passa per l’armamento degli insorti e la conseguente caduta del regime. Il problema è che la Russia continua a non volerlo, e gli occidentali, per motivi diversi, hanno ormai abbandonato l’idea.

Bernard Guetta
È un giornalista francese esperto di politica internazionale. Ha una rubrica quotidiana su Radio France Inter e collabora con Libération.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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