Interni. Enel sole, Veolia, Edf ed Hera Luce i gruppi che controllano il mercato. Ridurre la spesa per l'illuminazione pubblica, contrastare l'inquinamento luminoso. Questo, in estrema sintesi, l'appello rivolto al nuovo Governo e lanciato pochi giorni fa dall'associazione "Cielobuio". La stessa che lo scorso anno aveva elaborato una proposta di revisione della spesa di un settore che vale un miliardo di euro l'anno. Istanza -illustrata per Ae in questo video da uno dei due autori- che è stata però bocciata dalle Commissioni Ambiente e Bilancio della Camera dei Deputati. Il perché nell'inchiesta di Altreconomia del mese di febbraio.

di Duccio Facchini
TRATTO DA AE 146

Un passaggio dell'appello, che è possibile leggere integralmente cliccando qui.

Di inquinamento luminoso si parla solitamente in relazione agli effetti limitanti la percezione del cielo notturno e le osservazioni astronomiche. Meno note sono le sue conseguenze biologiche ed ecologiche: è un fattore fisico “nuovo” per gli organismi viventi, adattati nello loro lunghissima storia evolutiva alle condizioni naturali di luminosità, e può incidere negativamente sui singoli individui, condizionare la conservazione delle specie, alterare la composizione delle comunità biologiche e la funzionalità ecosistemica. L’uomo stesso ne è coinvolto, come attesta la ricca produzione bibliografica degli ultimi anni sulle conseguenze patologiche dell’esposizione notturna alla luce.

L’illuminazione pubblica ha un ruolo primario fra le cause dell’inquinamento luminoso. Il progetto di razionalizzazione dell’illuminazione pubblica denominato Operazione cieli bui, discusso e respinto dalle Commissioni Ambiente e Bilancio della Camera dei Deputati nella cornice della definizione della Legge di stabilità 2012, contemplava misure individuate in un’ottica di contemperamento tra la necessità di erogare un servizio di illuminazione di alta qualità (all’insegna della sicurezza e del comfort) e l’esigenza di contenimento della spesa pubblica (spending review). Tra le misure proposte vi erano lo spegnimento degli impianti di illuminazione pubblica extraurbani, lo spegnimento o l’affievolimento dell’illuminazione decorativa e di una parte dei complessivi punti luce stradali dopo le ore 23.00, la limitazione del consumo energetico attraverso l’applicazione delle norme della buona illuminotecnica (nel breve termine, mediante l’impiego di dispositivi di modulazione dei flussi luminosi e/o ottimizzazione degli impianti preesistenti; nel medio e lungo periodo, con l’incentivazione della posa in opera di impianti caratterizzati da sorgenti totalmente schermate verso l’alto, l’ottimizzazione delle interdistanze e delle potenze installate e la riduzione dei flussi coerentemente con il fabbisogno). Le stesse misure, determinando riduzione e contenimento dell’inquinamento luminoso, avrebbero sortito effetti positivi di ordine ecologico, sanitario e culturale.

Ci accorgiamo che esiste solo quando cerchiamo un appiglio cui assicurare la bicicletta. È il destino di un lampione italiano: costretto a illuminare a patto che la sua storia -e la sua spesa- resti al buio. Se il territorio fosse una pellicola cinematografica, i pali della luce sarebbero solo una comparsa. Fondamentale, perché senza il canovaccio non potrebbe svilupparsi. Trascurata, come una presenza ritenuta scontata.

È per questa ininfluente centralità che l’illuminazione pubblica è diventata una tra le più rilevanti (e incontrollate) voci di spesa dei Comuni. A pagarle, i cittadini: ieri con la fiscalità locale (Imu e addizionale Irpef), domani tramite una maggiorazione introdotta nella nuova imposta sui rifiuti e i servizi, la Tares.

Per il solo costo dell’energia, il nostro Paese impegna oltre un miliardo di euro: il consumo annuo sfiora i 6,4 miliardi di kWh, 107 kWh pro capite, e i punti luce da illuminare sono oltre 10 milioni. In Europa, consuma di più la sola Spagna (116 kWh annui pro capite). L’Italia vanta numeri importanti anche riguardo ai punti luce per chilometro quadrato urbanizzato (oltre 600), nella potenza media di ogni singolo impianto (oltre 140 Watt) e nella potenza per superficie urbana.

Anche se sappiamo che il Regno Unito spende un terzo dell’Italia e la Germania la metà, ragionare guardando solo al conto economico ci porterebbe fuori strada. Le risposte si trovano altrove.

A Roma, ad esempio: è il 5 luglio 2012 quando il governo guidato da Mario Monti fissa una conferenza stampa sul tema dell’approvazione del decreto in materia di revisione della spesa (spending review). Insieme all’allora commissario Enrico Bondi, l’esecutivo si è impegnato infatti a raccogliere le segnalazioni dei cittadini circa voci di spreco da arginare. E nel comunicato stampa relativo all’approvazione del decreto, si legge che tra gli “esempi di buone prassi” -i messaggi pervenuti a Palazzo Chigi saranno oltre 135mila- vi è quello denominato “Cielobuio”, presentato come la “riduzione dei tempi e dei punti di illuminazione negli edifici pubblici”. In realtà, “Cielobuio” (cielobuio.org) è il nome dell’associazione che ha formulato una semplicissima proposta: fermare l’emorragia apportando pochi, e in parte già applicati, accorgimenti.

Enrico Bondi raccoglie la sfida e chiama direttamente i rappresentanti dell’associazione, Fabio Falchi -dell’Istituto di scienza e tecnologia dell’inquinamento luminoso (www.inquinamentoluminoso.it)- e l’ingegnere illuminotecnico Diego Bonata (qui la video-intervista). “Insieme al commissario Bondi abbiamo impostato un percorso -racconta Bonata-. Ci chiese di quantificare i risparmi ottenibili da ottimizzazioni e miglioramenti dell’illuminazione pubblica e a quel punto ci chiese di stendere una proposta”. Nell’estate 2012, i membri di “Cielobuio” lavorano sul documento, che -d’intesa con il governo- si compone di tre parti: un documento divulgativo e riassuntivo circa la situazione esistente, una bozza di decreto e uno schema tecnico, tabella per tabella, cifra per cifra, intervento per intervento. Nel settembre 2012 il pacchetto viene consegnato. Da lì, la luce inizia ad affievolirsi. “Poche settimane dopo, la proposta fu inseritanel ddl Stabilità e presentata pubblicamente come ‘operazione cieli bui’, che -a tutti gli effetti- è stato un po’ un nome infelice -riflette Bonata-, perché è passata l’idea di un generalizzato spegnimento. Me l’avessero chiesto, non l’avrei mai chiamata così”.Per interesse o superficialità, il messaggio che trapela è che l’esecutivo voglia consegnare le città al buio indiscriminato.

E mentre il Parlamento si appresta a discutere il disegno di legge di Stabilità, tra ottobre e novembre le commissioni Ambiente e Bilancio di Camera e Senato passano al setaccio i provvedimenti, tra cui l’operazione “cieli bui”. Dai resoconti stenografici delle sedute, il dibattito sui contenuti non emerge. Ciononostante, il fronte è pressoché compatto. Secondo Ermete Realacci (Pd, presidente onorario di Legambiente) “Cieli bui” mina la “sicura vita quotidiana dei cittadini e delle famiglie”. Per Renato Cambursano (Gruppo misto) a fronte di “miseri risultati di risparmio” si affronteranno “molto maggiori costi sociali anche in termini di rischio di incidenti” -anche se, stando ai dati Istat sugli incidenti stradali verificatisi nell’anno 2011, non vi è differenza nell’incidenza tra estate e inverno, quando la luce è decisamente diversa-. Pensa lo stesso Paola De Micheli (Pd), per la quale a risentirne sarà “la sicurezza sulle strade”. Boccia “cieli bui” anche la Cgil, in audizione presso le commissioni Bilancio riunite, poiché “con l’intento di contenere la spesa pubblica si riducono al buio le città”. Contrario anche il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, in forza dei dubbi sollevati dalla popolazione: nel 2009 “il 27,4% dei cittadini afferma che la zona in cui abita è scarsamente illuminata”.

Per capire che Bonata e Falchi non volevano “spegnere le città”, però, sarebbe bastato leggere il pacchetto integrale consegnato a Bondi e a disposizione dei commissari che ne hanno interrotto l’iter prima ancora che raggiungesse le Camere. Altreconomia lo ha fatto, e la risposta che si trova è un intervento che avrebbe potuto far risparmiare al nostro Paese da 700 a 960 milioni di euro all’anno, salvaguardando la sicurezza della città e lungo le strade.

Prima di tutto le misure proposte erano e sono nove e non una: classificate per tipologia, risparmi ipotizzati (da un minimo a un massimo), investimenti necessari, tempi di ritorno di questi ultimi, tempi di realizzazione. E, sorprendentemente, di “spegnimenti delle città” non vi è traccia. Dei 960 milioni di euro previsti come risparmio massimo, la voce “spegnimento” -rivolta però a tratti extraurbani, strade ad uso artigianale o industriale, illuminazione pubblica di parchi o parcheggi a patto che risultino chiusi- pesa circa 220 milioni di euro, meno del 25%. Il resto, quel che più rileva ai fini dell’ottimizzazione e dell’interruzione dell’emorragia, risponde alla voce “sostituzione degli apparecchi inefficienti” (200 milioni di euro risparmiati a fronte di un investimento tra i 700 e i 900 milioni, con un ritorno stimato in 5 o 6 anni), o alla “riduzione e controllo del flusso luminoso” (300 milioni di euro il risparmio, circa un miliardo l’investimento, con un ritorno previsto di 4 anni), o all’“adeguamento dei servizi di manutenzione ai costi Consip” (vedi box) che, con un investimento tecnicamente trascurabile, avrebbe consentito un risparmio annuo di 140 milioni di euro.

Fino alla messa in efficienza delle tratte in galleria. Ragionando solamente sui tunnel in capo all’Anas (circa 425 chilometri), erano previsti -mediante l’applicazione di apparecchiature a Led e regolatori di flusso- un risparmio annuo di 15 milioni di euro, a fronte di un investimento di 45 milioni, recuperabile in poco meno di quattro anni. “La nostra proposta non faceva che consolidare ciò che già è previsto in diverse regioni italiane, penso ad esempio alla Lombardia, al Veneto e alla Puglia -precisa Bonata-. Purtroppo ha avuto un cammino travagliato. In parte per il nome e in parte -sostiene Bonata- perché andava a toccare interessi consolidati, la gestione e la manutenzione degli impianti sul territorio”.
Tra i principali soggetti attivi sul mercato troviamo Enel Sole (che gestisce il 20% dei punti luce), le francesi Veolia e Edf mediante la controllata Citelum, Hera Luce e Gemmo spa. I loro ricavi, legati in buona parte al mantenimento di un determinato livello della pubblica illuminazione, avrebbero potuto risentire -fisiologicamente- dell’applicazione dei principi contenuti nella cosiddetta operazione “cieli bui”. Principi che alcuni amministratori locali hanno scelto di mettere in campo comunque, seguendo molteplici direttrici. A Piove di Sacco (20mila abitanti in provincia di Padova) l’amministrazione comunale ha abbattuto le spese per la pubblica illuminazione da 380mila euro a poco più di 300mila. È bastato un accorgimento: spegnere gli impianti in determinate fasce orarie e in zone ritenute inutili da illuminare. “Abbiamo studiato il piano urbano del traffico e la banca dati regionale degli incidenti stradali. Dopodiché abbiamo riunito intorno a un tavolo soggetti chiave come la polizia municipale e l’Arpa -racconta ad Ae l’energy manager del Comune, Diego Benvegnù-.

Abbiamo condiviso i punti e le modalità e oggi ‘spegniamo’ certe aree dalle 2 alle 5 di mattina, ma non quelle sottoposte a video-sorveglianza”. Da Piove di Sacco a Modena, 185mila abitanti ma identico approccio. Grazie all’apporto di orologi astronomici in grado di distinguere le fasi del giorno, un parco impianti di 31mila pali relativamente efficienti, spegnimenti programmati in parchi chiusi o zone extra-urbane e opportuni regolatori di flusso, l’amministrazione comunale -su mandato dell’assessore all’Ambiente Simona Arletti (nella foto a destra)- ha risparmiato in sei mesi (da giugno 2012) oltre 500mila euro. “Considerando che la spesa annua si aggira intorno ai 6 milioni di euro, su un bilancio complessivo di 200 -spiega la Arletti, nella foto-, il risparmio non è indifferente”. Da Modena a Desenzano del Garda (27mila abitanti, in provincia di Brescia), dove il responsabile del settore Lavori pubblici, l’ingegnere Lorenzo Peretti, riassume in poche parole la strada percorsa da una settantina di comuni lombardi: la riappropriazione del parco impianti. “Fino al 2010, dei 6mila punti luce presenti sul territorio, 3.500 erano di proprietà della società Enel Sole. Pagavamo ogni anno circa 180mila euro per la sola manutenzione. Oggi, dopo averli riscattati, spendiamo per gli stessi pali poco più di un terzo”. E lo stesso vale per il comune di Corte Franca (7mila abitanti, Bs): “Il gestore (anche in questo caso Enel Sole) era proprietario di mille punti luce su 1.700 circa. Per ciascuno di questi, pagavamo in media 55 euro di manutenzione annua, escluso quindi il costo per la spesa energetica. Da quando abbiamo riscattato gli impianti -ricorda il responsabile dei Lavori pubblici, il geometra Angelo Bonfadini- spendiamo 10-12mila euro per mantenere tutti e 1.700 i punti luce all’anno”.

Corte Franca e Desenzano del Garda sono in contenzioso con la società del gruppo Enel che si occupa di illuminazione pubblica. Il contrasto è sulla valutazione economica degli impianti riscattati. Gli enti locali, infatti, sostengono di essere addirittura in credito con l’azienda: “Considerando che di norma il Comune ha da sempre investito l’80% della somma necessaria all’allargamento del parco impianti, applicando l’indice di vetustà, gli anticipi versati, le obsolescenze, e togliendo i costi di rimozione eventuale, a noi risulta un credito nei confronti di Enel Sole pari a 700mila euro” racconta l’ingegnere Peretti. Dinamica che vedrebbe in netta sofferenza il bilancio della stessa Enel Sole: nel 2011 la società presieduta da Livio Gallo (che acquista l’energia all’interno del proprio gruppo industriale), ha dimezzato l’utile di esercizio (dai 10 milioni del 2010 a poco più di 5 milioni di euro) e fatto registrare alla voce ricavi per “manutenzione e gestione impianti” poco più di 100 milioni di euro, sui 145 milioni totali. Della questione “contenziosi”, però, Enel Sole non ha voluto parlare con Ae, lasciando intendere che le iniziative di riscatto di quei comuni non sono altro che frutto di “posizioni pregiudiziali”.


5 sorelle in gara

Il 26 febbraio è l’ultimo giorno utile per consegnare le offerte nell’ambito della gara “Servizio luce 3” bandita da Consip (www.consip.it), l’ente appaltante per la pubblica amministrazione, una società per azioni che vede come socio unico il ministero dell’Economia. Le principali aziende attive nel mercato dovranno competere su tutto il territorio nazionale suddiviso in otto lotti.

Il bando precedente ha visto prevalere -tra le altre- le offerte di Enel Sole, Gemmo spa, Citelum (Edf e Veolia), Exitone, Siram. Sommando gli importi massimi previsti per ogni lotto della gara in scadenza a febbraio si raggiunge quota 967 milioni di euro (ben più dei 388 milioni di “servizio luce 2”). Ai Comuni che aderiscono la convenzione, in linea di massima, conviene. I canoni manutentivi annui previsti dal bando Consip, infatti, sono tra i 20 e i 22 euro a punto luce, ben al di sotto di quel che sono costretti a pagare molti enti locali. In pratica, però, la pur vantaggiosa convenzione -che prevede l’unificazione presso lo stesso soggetto della progettazione degli impianti, l’approvvigionamento energetico e la manutenzione- rischia di sottrarre ai Comuni la possibilità di pianificare correttamente e secondo i propri orientamenti la pubblica illuminazione sul territorio. Inoltre, oltre al fatto che voci come la manutenzione straordinaria resterebbero escluse dai prezzi convenzionati, tra le ragioni di chi non aderisce a Consip vi è la durata del servizio (da 5 a 9 anni), ritenuta eccessiva e non sottoposta a passaggi intermedi di controllo e verifica della bontà del servizio.

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