Nell’editoriale di ieri Luca Ricolfi invita a «parlare di tasse senza ideologie». E’ un invito da cogliere. Il dibattito sulle misure del nuovo governo dovrebbe riflettere le finalità del suo largo supporto parlamentare, sradicandosi da faziosità di parte.

A dibattere senza faziosità non dobbiamo esser solo noi commentatori senza potere, ma anche i membri del governo ai quali, diversamente da noi, si addice la riservatezza, il non sottolineare in pubblico inevitabili divergenze, giungere a buoni compromessi e difenderli con coerenza e unità.

Non giova al Paese, per esempio, che il viceministro Fassina sembri dissentire, in un’intervista sulla Repubblica di ieri, dalla posizione del suo ministro e del governo circa la strategia nei confronti del coordinamento fiscale dell’Ue. Smettano di rilasciare interviste, parlino con una sola voce, diano almeno l’impressione che mirano a governare, non a mettersi in luce per le prossime elezioni.

Ma torniamo a noi, a chi ha il compito di dire, disdire, dissentire, «senza pregiudizi», come suggerisce Ricolfi. Che rompe il ghiaccio con due «interrogativi provocatori»: se l’Imu sia scevra da effetti negativi sulla crescita e se, sempre ai fini della crescita, sia prioritario tener bassa l’Iva.

Sono domande importanti, urgenti e non facili da rispondere come molti sembrano pensare.

L’Imu può avere effetti depressivi sulla domanda aggregata, sia direttamente che attraverso il suo impatto sui valori immobiliari, che sono componenti importanti della ricchezza, da cui dipendono i consumi, e sono determinanti cruciali degli investimenti e della produzione nel settore edilizio, con il suo vastissimo indotto. Questi effetti si possono però contenere, rendendo l’imposta più progressiva di quanto è già e alzando le soglie per l’esenzione completa delle proprietà piccole e dei proprietari con redditi bassi. Insistere sulla difesa della prima casa sa di ideologia e propaganda mentre è evidente che sono soprattutto le piccole proprietà e i bassi redditi a veder traumatizzati i loro piani di consumo dal pagamento dell’imposta. In compenso si può calcare di più su chi è più ricco ma, proprio per questo, avendo un patrimonio e fonti di reddito più robusti e variegati, può ridurre meno le spese per pagare le imposte sugli immobili che possiede.

L’effetto depressivo dell’Imu è dipeso anche dall’incertezza delle modalità e dei tempi del suo pagamento nonché dalla confusione circa la destinazione del suo gettito fra Stato ed enti locali, confusione legata al più generale disordine di quel brutto aborto che è stato il cosiddetto federalismo fiscale. Inoltre si tratta di un’imposta che colpisce un settore, quello edilizio-immobiliare, mal governato, spesso gonfiato dalla speculazione e distorto dalla corruzione: perciò un settore fragile anche quando prospera, facile a deprimersi per un subitaneo mutamento del trattamento fiscale. L’idea di sospendere la rata di giugno è dunque buona per poter riflettere, studiare, calcolare e deliberare bene; ma è poi opportuno far presto a decidere risolvendo l’incertezza dei contribuenti e degli enti percettori del gettito e, accanto alla riforma dell’Imu, ci vuole almeno l’impostazione di una politica industriale dell’edilizia, che sia di riferimento per i progetti degli operatori del settore e degli investimenti immobiliari ma che garantisca anche la difesa dell’integrità del territorio, senza la quale non c’è crescita decente e duratura.

Sull’Iva credo di essere d’accordo con Ricolfi e persino con me stesso, anche se lui invita a non aver scrupoli a contraddire quanto scritto in passato. L’enfasi sul danno di un’Iva più alta è eccessiva e converrebbe, fino a quando non si riusciranno a tagliare più massicciamente le spese inutili, finanziare con l’Iva la riduzione di imposte che sono più importanti per rilanciare l’occupazione e aiutare l’esportazione. La riduzione del cuneo fiscale, cioè della differenza fra costo del lavoro e busta paga, e del «total tax rate» del quale Ricolfi ricorda il livello stratosferico raggiunto in Italia, sono più benefici per la crescita del contenimento dell’Iva. Lo hanno detto in molti (su La Stampa lo scrissi fin dai tempi del governo Berlusconi) e non ho mai capito perché il governo Monti non abbia aggredito la questione con tempestività ed energia. Inoltre, anche se contabilmente l’Iva finisce sui prezzi al consumo, in un periodo di bassa domanda ha meno probabilità di avere effetti inflattivi a carico della larga massa dei consumatori finali, mentre potrebbe incidere su uno o più degli anelli, a volte superflui, della catena distributiva. Ridurre i costi dei produttori con fondi provenienti dall’imposizione indiretta sui consumi, dalla quale sono esenti le esportazioni, ha un nome anche nei libri di testo: si chiama svalutazione interna e favorisce la bilancia dei pagamenti.

Credo di aver evitato ideologie. Se però andassimo oltre l’urgenza dei provvedimenti a breve, diverrebbe più difficile sfuggire valutazioni politiche, rimanere su un tono tecnico-pragmatico. Infatti nel lungo periodo decidere sul fisco, sulla qualità e il livello dell’imposizione, implica due scelte controverse: in che misura si vuole influenzare durevolmente la distribuzione del reddito e in che misura alcuni beni e servizi vadano considerati «pubblici» e perciò prodotti o sussidiati dalla pubblica amministrazione. Sono cioè in gioco le finalità e le dimensioni dello Stato nell’economia. Il finanziamento strutturale delle politiche di welfare, soprattutto, richiede prese di posizione che, pur volendo evitare faziosità ideologiche, non possono non avere qualche sapore «di parte».

Ma si possono cercare convergenze anche su questioni divisive di lungo periodo. E’ un bene che governi d’emergenza come quelli di Monti e di Letta siano spinti dalle urgenze di breve a esercizi tecnico-pragmatici che possono insegnare al Paese a raggiungere compromessi duraturi, politicamente più qualificanti.

Franco Bruni
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