Il lavoro al pari di una unzione: l'unica che Francesco è disposto a conferire ai governi della terra. E in forma condizionale.

La benedizione all'esecutivo di Enrico Letta e ai responsabili della cosa pubblica è giunta in maniera vincolata, con "l'incoraggiamento a fare ogni sforzo per dare nuovo slancio all'occupazione. Questo significa preoccuparsi per la dignità della persona. Il lavoro, per usare un'immagine, ci unge, ci riempie di dignità. Ci rende simili a Dio, che ha lavorato, lavora, agisce sempre".

Nel suo primo "1° maggio", Francesco ha conteso ai leader sindacali la piazza e i lanci di agenzia, con un doppio "comizio" nell'omelia del mattino e all'udienza generale. E con accenti da teologia della liberazione.

La cappella della residenza di Santa Marta, durante la messa di San Giuseppe Lavoratore, è assurta al ruolo di tribuna globale quando Bergoglio ha scagliato il suo anatema contro le multinazionali: ''Un titolo che mi ha colpito tanto il giorno della tragedia del Bangladesh: vivere con 38 euro al mese! Questo era il pagamento di queste persone che sono morte. E questo si chiama lavoro schiavo! Non pagare il giusto, non dare lavoro, perché soltanto si guarda ai bilanci dell'impresa, soltanto si guarda a quanto io posso approfittare, quello va contro Dio!''.

La trasfigurazione del lavoro sul piano del sacramento, attraverso l'immagine dell'unzione, si colloca ben oltre le concessioni al linguaggio giornalistico e fa compiere un passo inedito, ardito e originale alla riflessione del magistero.

Se il lavoro è una "unzione", il suo sfruttamento diventa infatti qualcosa di più e di peggio di un peccato sociale, assumendo la gravità e il profilo del sacrilegio.

La piccola "enciclica", che Francesco ha compendiato nei due interventi di questo primo maggio, mi ha riportato a un lucido excursus che l'allora arcivescovo di Buenos Aires tracciò dieci anni fa e di cui chi scrive fu testimone.

Quando quel giorno varcai la soglia dell'auditorium della UCA, l'università cattolica argentina, con l'anticipo usuale al moderatore di una conferenza, mi aspettavo di non trovare ancora nessuno, a eccezione dei tecnici per provare le slides.

Ma il cardinale Bergoglio era già lì, per fare gli onori di casa agli ospiti venuti dall'Italia.

Gli raccontai le ragioni per cui avevamo scelto quella location, associando il tema del lavoro alla sua città, nel ciclo di seminari che gli istituti italiani di cultura dedicavano al pensiero di Wojtyla, per iniziativa dell'allora Sottosegretario agli Esteri Mario Baccini, nel venticinquesimo del pontificato.

Ci trovavamo nel 2003: due anni prima l'economia del gigante australe, già barcollante per effetto di una ubriacatura monetarista prolungata e ad alta gradazione, era stata travolta dagli assalti alle banche e dalla crisi del liberismo finanziario, tragico antefatto e disatteso presagio di un morbo che avrebbe contagiato il pianeta intero. In tale contesto antesignano, l'Argentina mostrava, unitamente alla malattia, la comparsa e l'azione di reattivi anticorpi.

L'auditorium, della capienza di mille posti, non tardò a riempirsi e in apertura tributò un'ovazione ai brani dell'Enciclica Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, proclamati con cinematografica incisività dall'attore televisivo del momento, Gabriel Corrado: "Non è giusto che i debiti vengano pagati con sacrifici insopportabili".

Introducendo i relatori, confermai la sensazione del navigante, che imboccando l'estuario del Rio de la Plata respira un "buen aire", un vento nuovo di speranza e terza via, simile a quello che dovettero fiutare gli esploratori alla ricerca di un passaggio verso mondi nuovi. Insomma lo scenario più suggestivo per un appuntamento a cui avevamo dato il titolo "Duc in altum, il pensiero sociale di Giovanni Paolo II".

Il cardinale non si sottrasse all'invito a prendere il largo e issò le vele di un discorso ispirato, in cui soffiavano sentimenti, e argomenti, che ritroviamo adesso nel magistero di Francesco.

La dottrina sociale della Chiesa, spiegò, si distingue per "ampiezza di orizzonti" e "profondità teologica", fissando l'ancora della dignità del lavoro direttamente nel fondale divino che sottende la vita di ogni uomo, fatto a immagine del proprio Creatore e partecipe della sua opera creatrice.

"Questa icona di Dio lavoratore - ha ribadito oggi - ci dice che il lavoro è qualcosa di più che guadagnarsi il pane. Il lavoro ci dà la dignità. La dignità non ce la dà il potere, il denaro, la cultura, no! La dignità ce la dà il lavoro!''.

Il lavoro, insistette allora, costituisce la bussola, "la chiave essenziale della questione sociale", dal momento che risponde a una chiamata divina prima che a un bisogno umano, in un disegno di comunione e non solo di civilizzazione.

Non immaginava quel giorno, né lui né alcuno di noi, che dieci anni dopo sarebbe approdato sulla riva del Tevere e di un primo maggio planetario, dove la coincidenza con la festa dei lavoratori ha trasformato la catechesi papale in un anticipo di enciclica.

Una enciclica sociale che, quando verrà, non terrà conto delle "concezioni economicistiche".

Ma guarderà piuttosto alla falegnameria di Giuseppe, lavoratore e santo del giorno, esperto nella fabbricazione del bene più agognato dalle borse: la fiducia.

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Piero Schiavazzi, L'Huffington Post

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