La tragedia della Siria sembra avere un numero mai visto prima di spettatori impotenti e resi insensibili dalla frequenza e vastità degli orrori che quella tragedia quotidianamente produce.

Mai prima d’ora i crimini più atroci sono stati ripresi, fotografati, trasmessi quasi in diretta al pubblico della comunità internazionale, senza suscitarne reazioni significative.

A dire il vero, ci sarebbe in funzione, da oltre un decennio, una Corte Penale Internazionale, istituita a Roma nel 1998, nonostante l’opposizione degli Stati Uniti. La Cpi venne salutata come un passo decisivo verso l’affermarsi di una giustizia finalmente in grado di perseguire i crimini di guerra e quelli contro l’umanità: la tortura, il genocidio, lo stupro etnico, i massacri di civili inermi.

Eppure, questa Corte sembra oggi incapace di svolgere il proprio ruolo, se non ostinandosi a perseguire, con esiti alterni, piccoli o grandi dittatori, per di più esclusivamente africani.

Quanto alla Siria, ci si dice allargando le braccia, ogni forma di intervento è impraticabile. Non parliamo naturalmente dell’intervento militare (la Libia insegna), ma di quello di una giustizia internazionale che, chiamata a dar prova di sé, finisce per nascondere la propria impotenza dietro a giustificazioni ispirate alla più cinica delle Realpolitik.

Anche la Siria, come gli Stati Uniti e l’ Iran, non ha aderito alla costituzione della Corte Penale Internazionale. Per promuovere un’azione davanti alla Corte dell’Aja occorrerebbe una decisione unanime del Consiglio di Sicurezza, ma – ahimè – due dei membri con potere di veto, Russia e Cina, si oppongono, non solo a interventi ‘umanitari’ di tipo militare, ma anche a pacifici interventi ‘giudiziari’ che potrebbero urtare la suscettibilità del dittatore siriano, loro protetto ( almeno sino a ieri).

E così, ecco l’alibi della comunità internazionale, Usa in testa: è colpa dei Russia e Cina se non è possibile fare nulla per fermare la tragedia o almeno porre le basi perché i principali responsabili vengano chiamati davanti a un Tribunale Internazionale. E’ colpa loro se dobbiamo limitarci, da spettatori passivi, ad attendere che il conflitto si esaurisca da sé, per vedere quale sarà il ‘nuovo dis-ordine’ che esso produrrà e decidere di conseguenza se sia politicamente opportuno investire una Corte del compito di giudicare e punire i responsabili .

Che giustizia ignobile e inetta quella che si limita ad attendere che un crimine venga portato a compimento prima di intervenire con i suoi solenni ma inutili processi. Che insegnamento per chi vuole giustizia , e non è disposto a demandare alla comunità internazionale la scelta del momento politicamente più opportuno.

La realtà è che nessuno dei ‘grandi’ della politica internazionale vuole intervenire, ma che fa loro comodo il potersi nascondere dietro l’alibi dell’ostruzionismo russo e cinese.

Il giorno che questo ‘ostruzionismo’ venisse meno, sarebbe comico, in tanta tragedia, l’imbarazzo degli Stati Uniti di fronte all’eventualità di mettere in moto una Corte Penale Internazionale alla quale essi per primi, assieme alla Siria, e all’Iran, hanno scelto di non aderire. Una Corte che potrebbe trovarsi a dover perseguire crimini cui non sono rimasti estranei paesi che hanno negato il loro consenso all’istituzione della Corte stessa!

Il fantasma della ‘destabilizzazione’ copre e giustifica l’impotenza della comunità internazionale di fronte a oltre 100.000 morti e un milione di profughi, di fronte alla distruzione di città intere come Hama, Homs, Aleppo. Non si vuole intervenire, se non in modo occulto e ambiguo, incerti sul chi favorire: la lezione afghana e quella libica bruciano ancora . Ma il non-intervento è anch’esso un modo di intervenire, con la differenza che ci si rimette fatalisticamente a quello che accadrà sul campo.

Ci si rimette al ‘dopo’, ma, ci chiediamo: esisterà davvero un ‘dopo’?

La memoria si costruisce nel presente, ha bisogno di testimoni. Questo è l’insegnamento che viene dall’esperienza dei tribunali internazionali, da Norimberga all’Aja.

Ma chi potrà ricordare, se non ci saranno più testimoni?

di Michele Marchesiello 

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