Quando si tratta di curare ci vuole la solidarietà perché curare costa e perché i più bisognosi di cure rischiano con la sussidiarietà di passare dalla solidarietà alla carità. Alcune riflessioni su chi pensa che tornare alle mutue sia una formula innovativa.
12 APR - Vorrei parlare di mutue ma prima vorrei dichiarare i mie postulati di partenza. Non ho nulla contro le mutue integrative se sono una tutela estesa dell’universalismo e se non sono finanziate a scapito della fiscalizzazione. Credo che il sistema sanitario pubblico abbia bisogno di essere profondamente riformato al suo interno per ricontestualizzare i valori di solidarietà, di eguaglianza e di universalità. Credo che la vera sfida riformistica sia rendere compossibili i diritti con i limiti economici e non subordinare i diritti da una parte ai limiti economici e dall’altra alle possibilità di reddito. La riforma interna è necessaria per intervenire sulle principali criticità del sistema (governabilità, regressività dell’offerta nei confronti della domanda di salute, diseconomie ,antieconomicità, abusi e corruzione, organizzazione obsoleta dei servizi, ecc.).
Ciò pre-detto vorrei polemizzare con Antonio Polito editorialista del Corriere della sera che a proposito di mutue integrative ha dichiarato: “La concezione tradizionale di welfare ha ormai imboccato il viale del tramonto ed è arrivato il momento di tracciare nuovi schemi. Il pareggio di bilancio in Costituzione schiude scenari inediti e impone l’utilizzo di formule innovative”.
In cosa consista “la concezione tradizionale del welfare” non si sa, perché poi debba tramontare proprio ora che abbiamo più che mai bisogno di welfare, nemmeno, ma la cosa ridicola è considerare il ritorno alle mutue, anche se solo in forma integrativa, una formula innovativa. La concezione mutualistica della tutela è letteralmente crollata sotto i debiti e come dimostra la Germania, anche recentemente, è una formula per sua natura esposta all’indebitamento. Il mutualismo inoltre anche se integrativo resta comunque un genere di tutela sostanzialmente corporativo che favorisce i soggetti forti cioè con un certo potere contrattuale e poi il suo limite culturale principale resta quello di essere principalmente curativo.
Ma se oggi cresce la povertà, i disoccupati, i precari, i pensionati al minimo, la marginalità sociale perché mai mi dovrei preoccupare dei più forti? Perché ridimensionare l’universalismo proprio oggi che ne abbiamo più bisogno? Vorrei anche manifestare la mia preoccupazione nei confronti di due regioni la Liguria e l’Emilia Romagna che stanno patrocinando “mutue complementari” che da quel che sembra sono concepite come forme surrettizie di sostegno al copayment. Le regioni, per i motivi più diversi comprese le loro incapacità riformatrici, non riescono più a garantire le tutele gratuite per cui nei modi più vari debbono far pagare i cittadini, la spesa privata continua a crescere per cui anziché trovare il modo di liberare risorse dalle diseconomie spingono i cittadini a pagare delle mutue complementari per pagare ciò di cui si avrebbe diritto gratuitamente. Ripeto: si paga per pagare ciò che non si dovrebbe pagare.
La Liguria e l’Emilia Romagna sono sicure che non si riesca a liberare risorse riformando seriamente i loro sistemi sanitari pubblici? Ancora due questioni: si dice che le mutue integrative non sono “profit” e questo è vero nel senso che non sono assicurazioni, ma le mutue integrative costano perché hanno degli apparati, delle burocrazie, dei consigli di amministrazione, dei presidenti da pagare. Per cui non ci sarà profit ma qualcuno ci guadagna. Perché dobbiamo dare soldi all’intermediazione finanziaria togliendoli dall’assistenza? Non è meglio investire tutto in salute?
Inoltre i sostenitori delle mutue integrative chiedono da anni la defiscalizzazione dei contributi mutualistici a carico delle imprese. E già perché le mutue integrative piacciono molto soprattutto ai dirigenti aziendali, al punto da essere considerate il “benefit” più prezioso, ma solo perché sostanzialmente sono pagate dalle imprese, cioè sono un benefit contrattuale. Ma se oggi come dice Confindustria esiste il problema della competitività e del costo del lavoro ,perché mai dovrei aumentare il costo del lavoro con degli oneri mutualistici avendo a disposizione un servizio pubblico? E perché dovrei defiscalizzarli? Scaricare sullo Stato questo particolare onere contrattuale significa che lo Stato oltre che spendere soldi per la sanità pubblica dovrebbe anche spendere soldi per una sanità “parastatale”. Ma se lo Stato come dicono i fautori del mutualismo integrativo ha problemi di sostenibilità perché mai dovrebbe finanziarie un parastato? E se per finanziare un parastato fosse costretto a definanziare proporzionalmente la sanità pubblica cioè se stesso chi ci rimetterebbe?
Ancora una considerazione: da quel che vedo la tendenza è quella di contrapporre la sussidiarietà alla solidarietà fino a teorizzare il “welfare di comunità”. Non scherziamo...la sussidiarietà è obbligatoria per produrre salute in una comunità...ma quando si tratta di curare ci vuole la solidarietà perché curare costa e perché i più bisognosi di cure rischiano con la sussidiarietà di passare dalla solidarietà alla carità. L’ultimo pensiero è per le Regioni: prima di scaricare i vostri problemi sul mutualismo vorrei che accettaste un principio semplice: non si può caricare qualcuno altro di un solo euro fino a quando un euro è speso male nel pubblico.
Ivan Cavicchi