Sprofondo sud/1. Oggi come negli anni Cinquanta e Sessanta. I nuovi migranti meridionali. Impugnano bagagli a rotelle e vantano titoli di studio prestigiosi.
Aeroporto di Bergamo Orio Al Serio. Sono le 7 di un venerdì sera qualunque. Al gate numero 12 una lunga fila aspetta l’apertura dell’imbarco del volo per Lamezia Terme. Poco più in là, l’attesa per Brindisi. In coda ci sono molti giovani, 20-30enni per lo più. Ammazzano il tempo telefonando alla mamma che li aspetta “giù”, sfiorano in lungo e in largo lo schermo dell’iPad, spulciano un profilo Facebook sullo smartphone. Accenti marcati, consonanti forti si mescolano con qualche “e” chiusa, sintomo della permanenza al Nord. Li aspetta un fine settimana nelle città del Sud in cui sono nati e cresciuti. Periferie, borghi, paesi che hanno salutato da mesi o anni per studiare o lavorare. Oggi come negli anni Cinquanta e Sessanta.
Sono i nuovi migranti meridionali. Impugnano bagagli a mano con le rotelle, leggono, scrivono e vantano titoli di studio prestigiosi. Sono lontani i tempi in cui le valigie si chiudevano con lo spago e nelle tasche dei meridionali c’erano solo poche lire. Eppure c’è qualcosa che li accomuna ai loro antenati, ai “terun” che affollavano le coree della periferia di Milano o le soffitte dei palazzoni di Torino. «Oggi come in passato chi se ne va dal meridione mantiene sempre un forte legame con la propria terra d’origine», dice Franco Arminio, poeta, scrittore e regista di Avellino, che si autodefinisce “paesologo”. «Il Sud ti radica. Chi va via lascia sempre una porta aperta. Ma oggi come allora si è obbligati a spostarsi».
Luisa ha 28 anni. Dieci anni fa è partita da Sciacca, lembo estremo della Sicilia meridionale, alla volta di Bologna. «Sono partita per motivi di studio», dice lei, occhi neri e lunghi capelli ricci ancora più scuri. E da allora non è più tornata, se non a Natale, qualche volta a Pasqua e per l’estate. Ora fa la giornalista, il lavoro che ha sempre sognato. E vive a pochi passi dal Duomo di Milano, a più di mille chilometri dal mare cristallino che l’ha vista crescere, fare lo zaino per andare a scuola, uscire con le amiche, crearsi un’identità.
Come è successo a lei e come continua a succedere a tanti, da lì Luisa se n’è andata. E lontano dalla Sicilia ha ormai trascorso più di un terzo della sua vita. «Non penso di tornare», spiega, «mi manca la mia terra, l’idea della Sicilia, l’aria, il sole, il cibo, il mare. Ma non mi manca affatto il posto in cui ho vissuto». Fare la valigia è stato quasi naturale. «Il rapporto tra un siciliano, come di un qualsiasi altro meridionale, che va via e la sua terra è un rapporto difficile da spiegare», spiega. «Di amore e odio. Diciamo che in Sicilia non sarei riuscita a fare quello che faccio ora».
«Prima si emigrava, ma parte della famiglia restava in paese e molto spesso, dopo alcuni anni, si tornava», racconta Arminio, che in suo libro ha raccontato lo spopolamento dei paesi del Sud (Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia). «Ora si va via con l’idea che non si tornerà. Prima a partire erano braccianti e operai, oggi partono i laureati, le risorse di intelligenza del Sud: un patrimonio cognitivo che non può essere rimpiazzato. E questo avviene nel totale disinteresse della politica, questi sono temi che non entrano nelle campagne elettorali». Brain waste, lo ha definito la Svimez (associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno): spreco di cervelli.
Lorenzo, ingegnere informatico di 27 anni, è una delle menti che all’estero ci invidiano. Pure lui, a 18 anni, è partito da Neviano, comune di 5mila abitanti delle Serre salentine. Destinazione: Torino. «Ufficialmente per andare a studiare al Politecnico», racconta, «del quale avevo letto molto bene, ma in realtà sono partito perché avevo il desiderio di viaggiare, scoprire, conoscere». In Piemonte Lorenzo fa quattro anni di ingegneria informatica e computer science e poi vola ancora più lontano, a Barcellona, «grazie a un progetto di doppia laurea che mi ha permesso di vivere in Spagna un anno, imparare lo spagnolo e conoscere un universo accademico diverso». Un talento della matematica, dicono di lui gli amici, sin dai tempi della scuola. Terminati gli studi, viene contattato da una grossa azienda italiana. Che lo assume, e per la quale lavora per due anni a Milano. Ma il suo errare dal tacco estremo dello stivale non finisce qui. «La voglia di scoprire una nuova realtà sia lavorativa che di vita mi ha spinto a muovermi verso la Costa Azzurra», racconta, «dove vivo attualmente e che mi regala un mare stupendo del quale sentivo tanto la mancanza».
Dal mare salentino a quello francese, dunque. Lorenzo ora vive e lavora a Nizza, in uno dei più grandi poli tecnologici d’Europa. «Mi occupo di ricerca e sviluppo», racconta, «e mi ritengo molto soddisfatto soprattutto perché il mio lavoro è esattamente lo sbocco naturale dei miei studi e non mi sono dovuto adattare o “riciclare” come spesso accade giù». Al contrario di Luisa, però, lui nella sua Lecce vuole tornare: «La situazione lavorativa nel Salento mi ha spinto a pensare che sarebbe stato necessario accumulare molta esperienza e allargare la rete delle mie conoscenze per poi pensare un giorno di tornare e creare qualcosa di mio, che abbia le possibilità di sopravvivere alle difficoltà di un ambiente poco fertile per la realizzazione di nuove idee, ma con enormi potenzialità».
«Il punto problematico delle migrazioni dal Sud», dice Arminio, «è che ci dovrebbe essere anche mobilità all’inverso: io vado al Nord per lavorare in una azienda, dal Nord vengono al Sud per specializzarsi in qualcos’altro. E invece questo flusso bidirezionale non c’è, e questo è grave. Si scontano venti-trent’anni in cui il Sud è stato dimenticato dalla politica. Dalla comparsa della Lega Nord in poi, non se ne parla più». A un Centro Nord che attira e smista flussi al suo interno, spiega la Svimez, corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla.
E i numeri parlano chiaro: nel 2011 ben 112mila meridionali hanno spostato la propria residenza in una città del Nord (pari al 44% del totale delle migrazioni interne). Senza contare quelli che la residenza non la modificano per ragioni affettive. Perché anche se vivi a mille chilometri di distanza, avere una carta d’identità in cui c’è scritto che sei di Reggio Calabria, Lecce, Salerno o Palermo ti fa sentire ancora un po’ “terrone”. «La mobilità residenziale di lungo raggio nel nostro Paese continua a svolgersi lungo l’asse Sud-Nord», scrivono dalla Svimez. Lo dicono anche i dati Istat: questi flussi si muovono in prevalenza verso Nord Ovest (37%), ma anche il centro continua ad attrarre gli spostamenti con il 34% sul totale, superando l’ammontare dei flussi diretti verso il Nord Est (29%).
Negli ultimi vent’anni, dal Sud sono emigrati circa 2,5 milioni di persone, oltre un meridionale su dieci. Il “Sud altrove” è l’espressione scelta da una associazione di Reggio Calabria, LiberaReggio LAB, per descrivere in un documentario lo spostamento della popolazione del Mezzogiorno verso luoghi lontani. Riguardo alla provenienza, in testa per le partenze c’è la Campania (34.100), seguita da Sicilia (23.900), Puglia (19.400) e Calabria (14.400). La regione più attrattiva per il Mezzogiorno resta la Lombardia, che nel 2010 ha accolto in media quasi un migrante su quattro. Riguardo al titolo di studio, i laureati meridionali diretti al Centro Nord nel 2010 sono stati il 23% del totale, più che raddoppiati in dieci anni. Quanto all’età, il 57% dei migranti ha meno di 34 anni. E accanto ai single, ora cominciano a lasciare il Sud anche giovani coppie con figli.
L’emigrazione è una questione che riguarda tutti, anche chi resta. E il pericolo di quello che è stato definito uno “tsunami demografico” è il progressivo impoverimento, lo svuotamento dei luoghi. «Ci sono alcune aree in sofferenza in cui chiudono le scuole, gli uffici postali», dice Arminio. «Ma non ci sono grandi pericoli, il Sud è ancora molto abitato, a parte alcuni territori di regioni come la Lucania o il Molise dove ci sono molte case vuote».
Rosella e Giuseppe, 27 anni lei, 29 lui, sono nati entrambi in Calabria. Una a Cosenza, l’altro a San Luca, nella locride. Dopo sei anni a Roma, in quella Roma in cui su diversi palazzi si legge ancora lo slogan “Più case meno calabresi”, da più di un anno si sono trasferiti a Lisbona. Da questa metropoli affacciata sull’Oceano Atlantico, il mare calabro sembra ancora più lontano. Lei, come molti della sua città, a 18 anni ha fatto le valigie alla volta della capitale per studiare architettura. Lui, invece, a Roma c’era sì andato per studiare economia, ma poi ha scoperto l’amore per la cucina ed è diventato chef. Si sono conosciuti nella capitale, Rosella e Giuseppe. È lì che si sono innamorati e hanno progettato la loro vita insieme. Ma anche Roma a un certo punto non aveva più niente da offrire. Contratti sottopagati, stage senza rimborso e tanto lavoro gratuito.
Così prima è partito lui. Roma-Lisbona diretto. «Quando ho ricevuto un offerta di lavoro nel giugno del 2011», racconta. Poi, dopo la laurea alla “Sapienza”, è partita anche lei. Che ora lavora in uno studio di architettura nella periferia della capitale portoghese. «Anche qui a Lisbona la crisi si sente», racconta Rosella. «I salari sono bassi, ma almeno c’è più meritocrazia. E poi le poche imprese e i pochi studi di architettura che lavorano pagano gli stagisti. Poco, ma pagano, al contrario dell’Italia». Certo, dice, «se riuscissi a trovare un lavoro come architetto tornerei subito». Stessa cosa dice Giuseppe, che ora fa lo chef in un famoso ristorante italiano di Lisbona: «Ritornerò non appena avrò le stesse opportunità». Ma non c’è dubbio che il posto in cui sono nati, dove hanno lasciato madri, padri, sorelle, fratelli, nipoti, amici sia un pensiero costante. «Sì, mi manca», risponde Rosella, «fa parte di me. Progettare nella mia città, a Cosenza, è il sogno che ho nel cassetto». La segue lui: «Mi manca moltissimo. Lo penso tutti i giorni, ma giù non ho trovato le giuste opportunità».
Nelle storie di Luisa, Lorenzo, Rosella, Giuseppe, emerge la nostalgia. Di chi “sale” e “scende”. Dal Sud al Nord. Emergono i racconti di chi torna durante le festività, quando le strade dei paesi, delle città, si riempiono di volti nuovi. Ritorni provvisori, a volte talmente brevi da non dover disfare neanche la valigia. Si incontrano parenti, amici. Ci si racconta. C’è chi dice che “su” soffre. «Il Nord è freddo, mi manca il clima di giù». Chi invece non vede l’ora di “salire”, che «qui mi annoio, invece a Milano...». Certo, dice Arminio, «oggi rispetto al passato è possibile mantenere ancora più saldo il legame con il Sud grazie ai treni veloci, agli aerei. Così molti “scendono” anche tre o quattro volte all’anno».
Dietro tutto questo, ripete lo scrittore, c’è il dolore di una scelta obbligata, presa senza troppa libertà. «Non è una scelta, è un obbligo», dice. «Anche in America ci si sposta da uno Stato all’altro, da una città all’altra, ma non si usa la parola migrazione». E invece, ancora nel 2013, ogni giovane calabrese, campano, siciliano, lucano, è posto sin dalla sua adolescenza di fronte a un bivio: sa che dovrà scegliere se restare o andare. Alcuni partono con la leggerezza dei diciotto anni, alla scoperta di un’Italia diversa. Con gli aerei, con i pullman, con i treni che seguono il profilo delle coste. Aspirano a una formazione universitaria migliore. Hanno alle spalle famiglie che li possono mantenere. E non si sentono migranti. Eppure lo sono. Soprattutto quando scoprono che al Nord ci dovranno restare per lavorare. Stesso discorso per le migliaia di laureati che, una volta usciti dalle belle università del Sud (secondo il Censis l’Università della Calabria è al secondo posto tra gli atenei di grandi dimensioni in Italia) scoprono che quel territorio li respinge, che la loro carriera, se lo vorranno, li aspetta molto lontano. Lontano da quel Sud in cui l’incubo della disoccupazione sfiora il 18 per cento.
«Mi manca molto il mio paese, i vecchi amici e l’ambiente che si respira dove sono nato», dice Lorenzo. «Date le distanze e i collegamenti tutt’altro che ottimali cerco di tornare quasi ogni volta che ho un periodo di ferie abbastanza lungo». Magari è vero, continua, «che in alcuni casi si è più coraggioso a restare e che ognuno nel proprio percorso di vita sa bene in cuor suo cosa potrebbe fare per la propria terra e come farlo.? Qualcuno resta a combattere, qualcun altro crede che le soluzioni ai problemi di una regione vadano partorite anche attingendo da un bagaglio di esperienze e un orizzonte più ampio ed eterogeneo. E quindi emigra, con la speranza di tornare. Come me».
Lorenzo, come Luisa, Rosella e Giuseppe, sa che “giù” non avrebbe potuto fare quello che sta facendo adesso, a tanti chilometri dalla sua Neviano. «Non avrei potuto farlo», dice, «o meglio, non con la qualità e con le condizioni nelle quali opero al momento.? Realtà internazionali e avviate come quella in cui lavoro attualmente purtroppo non esistono al Sud.?La speranza è che qualcosa possa nascere in una regione che produce ogni anno migliaia di talentuosi laureati che si vedono poi costretti ad emigrare, per via di un circolo vizioso che racconta di investimenti pubblici mancati in servizi che causano perdita di competitività e quindi meno investimenti delle imprese. Tutto ciò si traduce in un’economia che, seppur florida rispetto al al panorama meridionale, resta sempre ad anni luce dal prospero Nord».
«Non chiamateci da Scilla, con la leggenda del sole, del cielo e del mare... Ce ne andiamo. Ce ne andiamo via», scriveva il poeta Franco Costabile nel suo Canto dei nuovi emigranti. «Il Sud è bipolare», conferma Arminio, «è un crocevia di opportunità e pericoli, è fregio e sfregio, croce e delizia. Ti radica e ti fa andare via. Ma io sono ottimista. So che non si può vivere di paesaggio, di mare, di sole, di aria, ma il Mezzogiorno ha i requisiti fondamentali per rinascere, un patrimonio dal quale si può ripartire».
Lidia Baratta
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