Malapolizia

Le parole di Lorenzo Guadagnucci, autore di "Noi della Diaz", nella prefazione a "Diritti umani e polizia in Italia" di Amnesty International.

di Lorenzo Guadagnucci*

Sotto i colpi dei manganelli non pensi a niente. Solo a proteggerti, a limitare i danni. Ma subito dopo subentra l'angoscia: trovarsi in balìa di funzionari dello Stato, di agenti di polizia che sarebbero tenuti a garantire la tua sicurezza e i tuoi diritti, e invece ti umiliano e mettono a repentaglio la tua salute e la tua vita, è un'esperienza sconvolgente. Mi è capitato di viverla il 21 luglio 2001 alla scuola Diaz di Genova. Curate le ferite, superato lo choc dell'arresto, è cominciata per me una nuova vita, segnata da un obiettivo preciso: ottenere giustizia, recuperare fiducia nelle forze dell'ordine e nelle istituzioni. È stato un cammino molto duro, pieno di amarezze, che ha condotto in capo a undici anni (troppi!) a risultati importanti sul piano giudiziario, con le condanne definitive dei funzionari e dirigenti che guidarono quella sanguinosa operazione di polizia, che portò anche all'arre-sto ingiusto, sulla base di prove false, di 93 persone (io fra queste). Non posso dire che sia stata fatta giustizia fino in fondo, perché gli autori materiali delle violenze non sono stati perseguiti dal-la magistratura e perché le istituzioni non sono state all'altez-za del loro compito, hanno cioè stentato a mettersi dalla parte dei cittadini privati di diritti fondamentali, ossia noi 93 ospiti della scuola Diaz. Il lavoro della magistratura è stato ostacolato in ogni modo ed è arrivato a conclusione solo per la tenacia e la lealtà di alcuni magistrati e giudici; gli uomini di governo non hanno chiesto scusa per le violenze e i falsi di quella notte e non hanno punito né avviato procedimenti disciplinari per i responsabili degli abusi.

Questa vicenda è stata per me una grande lezione. Mi ha fatto capire che mi sbagliavo, quando pensavo che nel mio Paese certi diritti fondamentali fossero garantiti una volta per tutte. Non è retorica affermare che i diritti, anche quando sono scritti nella Costituzione, vanno difesi giorno per giorno. In qualche modo ne siamo tutti custodi e tocca a ciascuno di noi, a ogni singolo cittadino, il compito di renderli vivi, attuali. È un compito quotidiano, di vigilanza, di denuncia e di solidarietà con chi subisce torti e abusi. Il più grave errore che si possa fare, è pensare che tocchi a qualcun altro occuparsene, che ci siano soggetti o istituzioni cui delegare l'onere di esigere il rispetto di ciò che è scritto sulla carta.

Non è così. Non c'è istituzione, non c'è tribunale che possa sostituirsi all'esercizio diretto dei diritti di cittadinanza. Il cittadino consapevole, informato, cosciente è il miglior custode possibile dei diritti umani, delle libertà civili. I tanti, troppi casi di persone private ingiustamente della libertà, a volte della vita, per responsabilità diretta o indiretta di uomini dello Stato, dimostrano che nessuna delega è possibile, nemmeno alla magistratura. Le strutture di potere, tutte le strutture di potere, tendono a chiudersi in se stesse, a nascondersi alla vista. Hanno sempre la tentazione di chiudere le porte e di gestire al proprio interno eventuali errori commessi da propri appartenenti. Ma questo comportamento non è compatibile con un'autentica democrazia, che vive e respira solo se le strutture di potere, a cominciare dalle forze dell'ordine, tengono porte e finestre aperte, sono quindi trasparenti e ammettono la verifica esterna dei propri comportamenti.

Non si tratta di contrapporsi alle forze dell'ordine, di guardarle con ostilità. Si tratta, piuttosto, di aiutarle a essere coerenti con lo spirito di una democrazia degna di questo nome. La battaglia per la trasparenza, per il diritto a una verifica immediata ed efficace delle responsabilità di eventuali errori, per la sospensione o la rimozione di chi abbia commesso atti o reati troppo gravi, è una battaglia di libertà e di garanzia che va nell'interesse della collettività e anche di chi lavora nelle forze dell'ordine. Non possiamo nasconderci che la legislazione italiana è ancora carente sul piano della tutela giuridica dei diritti umani (manca ancora nel nostro ordinamento il reato di tortura!) e che i comportamenti concreti delle forze di polizia in molti casi critici, alcuni dei quali documentati nelle pagine che seguono, sono stati assolutamente inadeguati, del tutto inaccettabili per un Paese democratico. Gli episodi gravissimi di cui si parla in questo volume non sono stati affrontati in modo degno dalle istituzioni: non c'è stata trasparenza, abbiamo assistito a gravissimi tentativi di depistaggio e solo la tenacia delle famiglie, come quelle di Federico Aldrovandi e di Gabriele Sandri, ha permesso di diradare la nebbia di silenzi e menzogne e arrivare a ricostruzioni credibili dei fatti e all'accertamento di almeno una parte delle responsabilità.

Questi e altri casi ci insegnano che non saranno le forze di polizie da sole, e nemmeno le istituzioni statali per conto proprio, ad aprire la stagione di riforme che ormai è necessaria. Solo i cittadini, partecipando, informandosi, agendo, potranno smascherare gli apparati di potere che rifiutano di aprirsi alla trasparenza e dettare nuove regole di condotta. Solo la militanza quotidiana, con l'esercizio dei diritti di cittadinanza, potrà gettare fasci di luce in quelle zone d'ombra che favoriscono l'abuso e l'ingiustizia.

*prefazione a "Diritti umani e polizia in Italia" di Amnesty International (Infinito edizioni)

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