di Federico Marcon
Che gli equilibri geo-politici mondiali stiano rapidamente mutando è sotto gli occhi di tutti. Ce lo diciamo ogni giorno e basta analizzare i dati macro-economici del globo per capire che, nel giro di pochi anni, vi sarà un rovesciamento portentoso del potere economico a favore dei paesi che ci ostiniamo a chiamare emergenti e che invece stanno diventando "schiaccianti", tanta è la loro forza propulsiva. A braccetto, anche il panorama della cooperazione internazionale sarà chiamato ad adeguarsi al mutato contesto: l'Europa sta perdendo in maniera vistosa la propria centralità sul tema, a causa delle minori risorse economiche disponibili e ad un potere di indirizzo sui grandi temi che purtroppo, a causa delle numerose spinte centrifughe promosse da vari paesi europei, non è riuscito ad affermarsi.
Gli attori della cooperazione italiana si stanno attrezzando per rispondere alle nuove sfide? A mio modesto parere non a sufficienza: siamo in ritardo su molte questioni e tendiamo a promuovere politiche di cambiamento solo se costretti da fattori esogeni. I fondi europei nella prossima programmazione saranno maggiormente decentralizzati per operare direttamente con gli attori locali, senza passare per le Ong europee? Allora armiamoci di conseguenza. Il Ministero degli Esteri propone delle nuove linee di "accreditamento" che potrebbero premiare solo realtà di una certa dimensione? Mettiamoci a pensare a come fare uno scaling up delle nostre operazioni. Dovremmo essere più proattivi e cercare di anticipare i tempi, invece di subirli.
Quale sarà il nostro futuro? A mio parere, per le organizzazioni che hanno un know-how che fornisce davvero valore aggiunto, la scelta sarà obbligata: un dual track caratterizzato, da un lato, dal rafforzamento delle nostre operazioni di cooperazione allo sviluppo cercando delle nicchie meno affollate; dall'altro, l'avvio di progetti business-oriented ad alta redditività nei paesi in via di sviluppo, con i proventi dei quali potremo finanziare i nostri interventi di cooperazione, senza dipendere più esclusivamente dai rivoli finanziari dei fondi pubblici, ormai prossimi al prosciugamento, o da un fund-raising italiano che mostra segnali di cedimento alquanto allarmanti. Occorre insomma mettersi nell'ottica dell'internazionalizzazione delle nostre "imprese sociali", con un prodotto di welfare da esportare verso mercati che lo possano sostenere economicamente.
Proprio per questo, trovo estremamente preoccupante la reazione isterica di molti attori del Terzo Settore alla proposta, contenuta in un emendamento presentato lo scorso dicembre nel ddl relativo alla legge di stabilità, di dare la possibilità alle imprese sociali di distribuire utili (entro un limite del 50% dell'utile netto) esclusivamente a imprese for profit e amministrazioni pubbliche che siano azioniste (quindi non a soci e azionisti persone fisiche). Molti l'hanno vissuta come un attacco alla diligenza di un settore candido ed intonso.
Io, pur non condividendo in toto il metodo usato per presentare l'emendamento, credo invece che fosse un'occasione eccellente per mettere un primo importante tassello verso la questione di fondo: come possiamo attirare investimenti nelle nostre organizzazioni, offrendo una parziale remunerazione del capitale? E' un tema assolutamente strategico, perché ci permetterebbe di operare quella commistione col settore privato per noi essenziale nell'ottica di internazionalizzare le nostre organizzazioni, che sovente mancano di capitali e cultura in questo senso. Spero di essere smentito, ma credo che quando assisteremo ad una progressiva sparizione di molte organizzazioni, soffocate dalla mancanza di fondi, rimpiangeremo il fatto che molti attori si siano rifiutati a priori di affrontare il tema, perdendo un'occasione d'oro per dare una svolta progressista alla governance del Terzo Settore.