Un servizio di counseling, ma anche una base logistica per incentivare i contatti tra madri e figli separati dal lavoro. Le ragioni e gli obiettivi del progetto Te iubeste mama!.
Cerco Silvia Dumitrache nei grandi spazi della Cuccagna, cascina storica scampata miracolosamente alla speculazione edilizia e stretta tra palazzi e condomini. La trovo nella stanzetta che da ora in poi sarà il suo ufficio, dietro una scrivania, in procinto di rilasciare un'intervista. Silvia è nata a Bucarest nel ?58 e da dieci anni vive in Italia, dove ha fondato l'Associazione Donne Romene in Italia. Con quest'ultima, ha lanciato il progetto Te iubeste mama! (La mamma ti vuole bene!), sportello «dell'amore e della solidarietà», dedicato alle lavoratrici migranti romene. Te iubeste mama è un servizio di assistenza legale e ricerca lavorativa. Ma soprattutto intende, una volta trovati i fondi necessari, incentivare la (video)comunicazione tra queste donne e i loro figli lasciati a casa, attraverso l'utilizzo gratuito di Pc e Skype. Silvia si muove tra Milano e il suo Paese. L'anno scorso, con il patrocinio del Comune di Milano, ha firmato un accordo che prevedeva la possibilità per le donne, in quattro biblioteche rionali, di prenotare una videoconferenza con i loro figli lontani. In Romania, un servizio speculare permette lo stesso in cinque biblioteche regionali. Perché guardarsi, mentre ci si parla, «fa una grande differenza, e aiuterebbe a lenire le sofferenze sia dei piccoli che si sentono abbandonati, sia delle donne, molto spesso sole, costrette dalle difficoltà ad un lavoro, come quello di cura, che riduce drasticamente gli spazi della propria vita affettiva».
Il male di cui parla Silvia è stato ribattezzato sindrome italiana, e indica un malessere composito, che riguarda madri (partite per l'Italia per fare le badanti o le baby sitter, comunque impegnarsi nel cosiddetto lavoro di cura) e figli (rimasti senza madre e senza cura). Si chiama italiana non perché attecchisca solo qui, ma perché l'Italia (complice un welfare inesistente) è una delle mete privilegiate per le donne dell'est Europa. A nominarla, per la prima volta, furono nel 2005 Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych, due psichiatri di Ivano-Frankivs'k, nella zona occidentale dell'Ucraina. Disturbi identitari, profonda solitudine e l'affievolirsi del senso materno furono i sintomi che i due medici riscontravano nelle donne che avevano lavorato in Italia, spesso con turni no stop di 24 ore, inserite in nuclei famigliari non propri e separate, oltre che dai propri cari, dall'ambiente circostante. Il fenomeno ovviamente non riguardava solo le donne ucraine, ma anche russe, moldave, rumene. Ed è in Romania che appare chiaro, per la prima volta, come riguardi anche i bambini, gli orfani della globalizzazione. Mihaela Ghircoias, psichiatra dell'ospedale pediatrico di Iasi, nella Moldavia romena, scopre che più della metà dei suoi piccoli pazienti ha una madre emigrata come badante. Secondo i dati Unicef, nel 2008 erano 350 mila i bambini romeni con almeno un genitore all'estero (il 7% del totale dei minori). Un terzo di questi, di età inferiore ai 10 anni, aveva sia mamma che papà lontani. I casi di suicidio tra i minori sono solo la punta dell'iceberg, di un dolore profondo che si incunea nel petto e rosica dall'interno.
«Intervenire non è facile», spiega Silvia. «Questi bambini in genere non parlano dei loro problemi, rendono bene negli studi e tengono per sé il loro dolore. Come un ragazzino, che si uccise subito dopo la premiazione a scuola per i buoni voti conseguiti: era l'unico, tra i suoi compagni, a non essere accompagnato dai genitori». La separazione presenta sempre dei costi da pagare. E alla difficoltà della scelta, si lega a doppio filo il senso di colpa, alimentato dai pregiudizi di cui queste donne si sentono bersaglio. «Quando si verifica un dramma, è la madre a essere messa sul banco degli imputati, a ricevere le accuse più aspre. Quelli che rimangono in Romania, che non hanno bisogno di partire per mantenere la propria famiglia, criticano la loro decisione, non la capiscono fino in fondo. Del resto, buona parte delle migranti vengono dal Nord del Paese, la zona più povera. Chi non vive qui, anche se è romeno, fa fatica a comprendere le loro ragioni». Non ultimo, sul malessere riveste un ruolo di primo piano la questione del razzismo. «È comune trovare lavoratrici che evitano di parlare romeno per strada o in luoghi pubblici: hanno paura di essere scambiate per rom, di essere malviste per le loro origini. Migranti e romene: peggio di così, in Italia, sembra che non ci possa essere nulla».
Ogni mercoledì, dalle 15:00, Silvia sarà in Cuccagna ad accogliere le donne, mentre per il resto della settimana, il servizio di assistenza, patrocinato anche stavolta dal Comune di Milano, continuerà su internet, attraverso il sito dedicato. Tra due giorni partirà alla volta di Bucarest per incontrare esponenti del Governo: la sua speranza, ci racconta, è che questo progetto ottenga più vigorosi appoggi istituzionali, perché risulti utile sia alle madri in Italia che ai figli in Romania. «Sono rimasta molto stupita nel sentir dire, ad un ministro del nuovo governo (entrato in carica a dicembre 2012, ndr), che il Paese deve assumersi la responsabilità di questo fenomeno: non avevo mai sentito pronunciare la parola "responsabilità" da parte di un soggetto politico. L'ho trovato singolare. Spero non rimangano solo parole».
Luigi Riccio