Intervista a Marco Aime, antropologo e scrittore, autore di un pamphlet indispensabile per recuperare la capacità di pensare.

Dragan ha un dito - anzi «un ditino» - nero. Non si è sporcato come capita ai bambini ma gli hanno preso le impronte digitali. E, a partire da questo fatto, piccolo eppure assai rilevante, Marco Aime  gli scrive una lettera aperta. Parte da qui, in dialogo con un ragazzo straniero (rom o supposto tale), La macchia della razza, pubblicato da Eleuthera, con una breve premessa di Marc Augè e la postfazione di Guido Barbujani. Un libretto indispensabile. Per la memoria e per recuperare la capacità di pensare. Il sottotitolo parla di storie di ordinaria discriminazione che però la politica, i media, gli intellettuali non "possono" chiamare così perché (scrive Augè) siamo davanti «alla stupidità, alla malafede, alla banalità del male, alle ipocrisie del linguaggio» e loro sono interamente coinvolti. Per questo Aime "urla". E snocciola date e fatti. Il 2 agosto 1944 (quando ad Auschwitz, in una notte sola, furono gasati 3000 rom e sinti) è lontano, e lontano è l'ottobre 1938, quando il governo italiano emanò le leggi razziali. Ma il 14 marzo 2007, quando un tribunale tedesco decretò che essere sardo rappresentava un'attenuante in caso di stupro, e  il 15 settembre 2008, quando a Milano fu ucciso Abdul Guibre, sono o il 30 aprile 2008, sono date vicine. Eppure sembriamo averle dimenticate. Forse qualcuno stenta a credere che i fatti citati da Aime siano veramente accaduti. «Quando la memoria va a raccogliere rami secchi ritorna con il fascio di legna che preferisce» scrive Aime, riprendendo un proverbio africano. Colonna sonora consigliata per accompagnare la lettura: Dylan (grande poeta? quando non era una Spa) con «quante volte un uomo può girare la testa e fare finta di non avere visto?» e De Andrè con «Anche se voi vi credete assolti siete per sempre coinvolti».

Non siamo mai stati del tutto «brava gente», noi italiani, come ci piace credere.

Ma certo negli ultimi anni ci siamo incarogniti. Un esplosivo mix di ignoranza e soldi forse, come cantavano (a proposito di Pietro Maso) i Pitura Freska. O un insieme di paure e di egoismi cresciuto lentamente perché - scrive Aime - «il razzismo è una malattia sottile, scava nei cuori della gente, cancella pezzi di memoria, deforma lo sguardo». A spaventare Aime sono i cattivi, certo, ma anche i complici silenziosi o quelli che pensano sia ingiusto ma «cosa ci posso fare io? È il sistema che è sbagliato, è la sinistra che non c'è più».
A partire da questo doloroso, necessario urlo abbiamo rivolto ad Aime tre domande.

Nel suo libro lei dedica molte riflessioni all'emigrazione italiana verso altri paesi, ma si sofferma appena sul nostro colonialismo, con il suo corollario di orrori. Un problema di spazio o ritiene che abbiano contato poco nella costruzione di una mentalità razzista?

«Assolutamente no. Credo, al contrario, che viviamo in un paese che non ha mai saputo fare i conti con il passato. Non li ha fatti con il fascismo, con le leggi razziali, con l'emigrazione e con il colonialismo. A proposito di questa esperienza, è evidente come venga sottaciuta persino nei testi scolastici, che gli dedicano pochissimo spazio, spesso all'ultimo anno, negli ultimi giorni dell'anno scolastico dove gli argomenti si trattano frettolosamente. Anche nei dibattiti politici nessuno rievoca mai le violenze e le angherie commesse in Etiopia e in Libia. Ci siamo costruiti il mito degli "italiani brava gente", alimentato da certo cinema e certa letteratura, dove veniamo descritti come colonizzatori un po' ingenui, sprovveduti, con la tendenza a familiarizzare con i nativi. Senza contare poi il luogo comune per cui noi saremmo andati là a costruire strade e scuole. Siamo rimasti a questa lettura ottocentesca, che spiega anche un certo nostro atteggiamento nel confronto degli immigrati. Il non avere mai ammesso le nostre colpe, ci fa sentire innocenti e senza nessun debito nei confronti dei paesi invasi. Ogni tentativo di muovere accuse di razzismo viene eliminato alla radice, minimizzato, riportato a quell'immagine della brava gente, che forse insulta e maltratta gli stranieri, ma in modo bonario. Non riusciamo e non vogliamo pensarci "cattivi"».

Razzismo, omofobia e misoginia: sono cose distinte o collegate?

«Ci sono aspetti comuni, ma forme e modalità diverse. Innanzitutto, credo che occorra fare una precisazione terminologica: la parola "razzismo" fa riferimento al concetto di razza e non può essere usato per indicare ogni forma di discriminazione. Detto questo, è vero che dopo un paio di decenni in cui dominavano ideali universalisti, ci si è progressivamente chiusi, seguendo narrazioni che riportano all'etnia, a quel tragico binomio "terra e sangue" e all'esclusione di chiunque non risponda a un criterio arbitrario di "normalità". Credo che ci sia una matrice comune a tutte queste forme di chiusura. Il dominio del mercato, ha cancellato ogni ideale che non sia quello del guadagno e, allo stesso tempo, ha innescato nuove paure. Paura di perdere ciò che si crede di avere. Ecco allora che ci si arrocca e si comincia a temere ogni forma di differenza, sia essa di pelle, di religione, di sessualità. Si ritorna a una sorta di tribalismo che giudica gli altri solo sulla base del proprio etnocentrismo».

Ci sono molti tipi di razzismo. Quello istituzionale (di cui oggi comincia a esserci consapevolezza) in Italia ha preso soprattutto il volto della Lega. Ma davvero il leghismo ha "soddisfatto" un sentire comune o lo ha piuttosto "allevato" dando ai razzisti un diritto di cittadinanza impensabile solo vent'anni fa?

«Dovremmo interrogarci sul ruolo della politica: ha il compito di costruire una società etica oppure seguire gli umori della gente? È chiaro che pulsioni di tipo razzista o discriminatorio esistono in ogni comunità. È fisiologico. Chi deve guidare un paese, una comunità, però ha il dovere di isolarle, colpirle, attenuarle. Non di esaltarle, come ha fatto la Lega in prima persona, ma grazie anche alla compiacenza di altri gruppi politici. Quando negli anni Cinquanta e Sessanta ci fu una forte immigrazione dal sud Italia verso il nord, si assistette a episodi di razzismo e ad attriti tra le diverse comunità. La classe politica di allora fece di tutto per attenuare le tensioni. Nessuno si sognava di cavalcare i mal di pancia della gente del nord e usarlo come arma politica.

La Lega si è inserita in un vuoto politico lasciato dal crollo delle grandi narrazioni del Novecento e ha lanciato la carta dell'etnicità, sostituendo la complessità dell'analisi sociale con slogan semplicistici e populisti. Intuendo e intercettando un disagio reale, ma incanalandolo tutto nell'opzione razzista e xenofoba, costruendo via via un nemico necessario (il meridionale, lo straniero, il musulmano?) necessario alla propria sopravvivenza. Inoltre, ha sdoganato un linguaggio triviale e scorretto presentato come "popolare", finendo per dare all'idea di popolo un'immagine retriva e becera. Estendendo la visione stretta e limitata di una minoranza all'intera popolazione dell'Italia settentrionale».

Daniele Barbieri

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