di Paolo Bricco
Nel latte e nel vino come nella meccanica. Nella frutta e nei formaggi come nella robotica. Anche la cooperazione riproduce la minorità dimensionale, e dunque sul lungo periodo strategica, dell'industria manifatturiera italiana. Da una analisi condotta da Nomisma, emerge ancora una volta, quasi fosse un dato strutturale che si replica in tutti i comparti, la stazza media inferiore rispetto agli standard europei.
Nella Unione europea esistono circa 40mila cooperative, specializzate in tutti i segmenti dell'agroalimentare. Ci sono le commodity come il latte e la frutta. Ci sono i prodotti di fascia medio-alta con una elevata caratterizzazione di marchio come il parmigiano reggiano. C'è il vino che, per natura, tende a soddisfare la domanda puntuale di chi desidera una bottiglia (quella bottiglia) e non a saturare domande crescenti di mercati di massa, magari dei Paesi emergenti.
In tutti i casi, però, la questione dimensionale esiste. Eccome, se esiste. Il fatturato complessivo della cooperazione comunitaria si aggira intorno ai 300 miliardi di euro all'anno. Le cooperative italiane, secondo gli ultimi dati omogenei disponibili, sono 5.834. Il fatturato totale supera i 34 miliardi di euro. Il problema è che la stazza media nazionale non raggiunge i 6 milioni di euro. Inferiore rispetto ai 7,5 milioni di euro fatto registrare dalla coop comunitaria media. Ma, soprattutto, di gran lunga inferiore se confrontata alla dimensione media della Francia (17 milioni di euro di ricavi annui) e della Germania (14 milioni di euro), che come per tutti gli altri comparti - dalla meccanica strumentale all'automotive, dal bianco alla robotica - risultano potere contare su un tessuto produttivo più solido e articolato, meno frastagliato e atomizzato di quanto non sia il nostro.
Anche se, in questo caso, il problema è duplice. Perché lo svantaggio riguarda sia le economie di scala (e questo apparenta la cooperazione agroindustriale alla manifattura italiana in senso più ampio) sia le economie di scopo (e in questo rivela una debolezza strutturale specifica). Le economie di scala si fanno sentire soprattutto nel rapporto con i mediatori della grande distribuzione organizzata, che costituiscono una sorta di gigantesca innervatura commerciale dei mercati globalizzati. E, nello specifico, con i singoli mercati nazionali emergenti, come ad esempio la Cina. «È chiaro - osserva Denis Pantini, responsabile del settore agroindustriale di Nomisma - che, di fronte ai numeri minimi richiesti in mercati enormi come quelli emergenti, esiste una impossibilità tecnica a essere nella partita. Pensiamo al vino, che peraltro rappresenta il segmento in cui la nostra dimensione relativa è fra le maggiori nel contesto comunitario. Questo vale tanto più in tutti gli altri segmenti».
A questo punto le economie di scala, con i loro deficit, si trasformano rapidamente in economie di scopo, che in una ottica comparativa europea aggiungono al comparto ulteriori elementi critici. Dunque, il problema non è soltanto quanto produrre. Ma, anche, come organizzare l'intera filiera. E in quali maniere raggiungere i consumatori finali. Come si distribuisce e come si struttura la logistica, che in un comparto per definizione con un ciclo di vita ridotto (il vino e il latte sono, almeno sotto il profilo "organico", più deperibili di un transistor o di una putrella) appare essenziale. Perché, alla fine, sono questi i fattori che determinano chi assorbe più valore aggiunto. In una parola, chi ci guadagna davvero.
«Per questa ragione - osserva Paolo De Castro, presidente della Commissione per l'agricoltura e lo sviluppo rurale del Parlamento europeo - è importante che in Italia continuino i processi aggregativi. Dimensione vuol dire efficienza. È un problema di tipo industriale. Le cooperative francesi, tedesche e scandinave non hanno grandi leve finanziarie in più. Gli aiuti comunitari sono omogenei in tutta Europa. È un problema di massa critica, indispensabile per provare a trattenere in Italia la quota maggiore di valore aggiunto e, allo stesso tempo, per sostenere i processi di internazionalizzazione che, in altri Paesi, hanno preso il via prima che da noi».
Ancora una volta, sembra profilarsi una Europa a doppia velocità. Il Nord e il Mediterraneo. Soltanto in Spagna il movimento cooperativo pare, nella fotografia sintetica dei numeri, più gracile rispetto a quello italiano: poco meno di 4mila realtà, un fatturato che non raggiunge i 19 miliardi di euro e una dimensione media di 4,7 milioni di euro per coop (contro, appunto, i 5,9 milioni medi del nostro Paese). In Danimarca e in Olanda l'"agglomerazione" ha condotto a sostanziali oligopoli, con tutto il movimento cooperativo che è precipitato in alcune gigantesche tecnostrutture, che hanno rapporti per nulla minoritari con i giganti della Gdo.
Il profilo più robusto del Nord Europa, in realtà, non è soltanto un fenomeno statistico puntuale. È anche una questione di agglomerazione: in Francia alle prima cinque è riferibile il 22% degli 80 miliardi di fatturato aggregato annuo; in Germania le prime cinque cooperative fanno addirittura il 57% dei 37,5 miliardi di euro di ricavi aggregati. In Italia le prime cinque si limitano al 17 per cento.
Nel lattiero caseario, a guidare i primi 10 colossi europei, ci sono gli olandesi di FrieslandCampina. Di nuovo gli olandesi, nell'ortofrutta, con FloraHolland. Nel vino i primi in Europa sono gli italiani di Cantine Riunite & Civ. «Al di là delle differenti connotazioni dei vari segmenti - osserva Ersilia Di Tullio, economista di Nomisma specializzata in cooperazione - per tutti i settori esiste un problema di contesto nazionale e di dialettica con i mercati globali. È chiaro che lo sviluppo passa per la crescita dell'export. Ma è altrettanto chiaro che il vantaggio o lo svantaggio comparato di cui si beneficia o di cui si soffre è rappresentato dalla presenza o meno di grandi piattaforme distributive nazionali internazionalizzate, in grado di piazzare i prodotti del proprio Paese sugli scaffali di tutto il mondo. Questo vale in sé per tutto l'agroalimentare italiano. E vale ancora di più per la cooperazione, che sconta già un ritardo nel presidio dei mercati esteri. I francesi hanno grandi catene globalizzate. I tedeschi e gli scandinavi, anche. Gli italiani, no».
Dunque, pure nell'agroalimentare gli italiani devono andare a rimorchio, in una posizione di sudditanza commercial-industriale e di minorità psicologico-strategica.