I segnali di un giornalismo che si libera dalla pubblicità.
Parlando in questi giorni con chi ci guarda da Londra, capita di sentirsi rivolgere la domanda: «Com'è possibile tutto questo spazio sulle prime pagine a dichiarazioni che sono telemarketing?». Questo perché, a loro dire, gli inglesi non potrebbero permettersi mai una cosa del genere, per rispetto di lettori che «sono l'azionista di maggioranza dei giornali».
Il paradosso è che, in qualche modo, anche in Italia i lettori sono "l'azionista di maggioranza". Dipende da che modello di azionariato si considera.
Il modello indubbiamente in voga presso i gruppi editoriali nazionali è quello della maggioranza "ampia", ossia del numero più alto possibile di lettori. I principali quotidiani italiani parlano di qualcosa come 4-5 milioni di fruitori giornalieri dei propri contenuti. Non lettori, va precisato, ma "fruitori". Non notizie, ma "contenuti". Un esercito di contatti che avviene in minimissima parte attraverso la tradizionale versione cartacea del quotidiano, in parte ormai maggioritaria tramite il web, e, in via sempre più incisiva, per mezzo dei social network.
Un tale modello ha come unico obiettivo quello di moltiplicare se stesso. Ovvero, i numeri. Questo perché, alla sua base economica c'è l'introito pubblicitario, il quale, appunto, misura il proprio valore sulla visibilità. E non sulla qualità.
Quale elemento di visibilità migliore di una televendita continua?
Detto ciò, è interessante osservare come ci siano segnali che questo modello non necessariamente possa essere quello vincente nel futuro. O, comunque, debba essere l'unico a garantire informazione. In primo luogo, perché la formula pubblicitaria resta estremamente legata alla salute del cliente pubblicitario, e in periodi di crisi congiunturale come quello attuale, dimostra la fragilità dei sistemi editoriali italiani. Non solo. Gli ultimi anni hanno evidenziato anche una tale forza dominante dei clienti, e ancor più dei grandi centri di gestione (o sarebbe meglio dire di "commistione") dei budget pubblicitari-comunicazionali, da lasciar prevedere prima o poi una battaglia deontologico-sociale di rigetto (è tra i progetti scritti nel Dna di ETicaNews).
Inoltre, cominciano a rilevarsi esperienze che evidenziano la possibilità di "tornare" a un sistema premiante dei contenuti, ovvero al pagamento degli stessi da parte di "fruitori" tornati a essere "lettori". L'ultimo caso emblematico è quello del New York Times: nel quarto trimestre 2012, per la prima volta i ricavi dalla circolazione e dagli abbonamenti hanno superato quelli da pubblicità.
È facile rispondere: si tratta di un quotidiano in lingua inglese, il cui bacino di utenza è assai differente da quelli di un giornale italiano o europeo. Sarà, ma qualche tentativo comincia a essere sperimentato anche in Europa. Una ricostruzione l'ha tentata, nei giorni scorsi, Marco Cesario per linkiesta partendo da un pamphlet che sta spopolando in Francia, sotto l'egida di una frase di Jacques Ellul: «Ciò da cui siamo minacciati non è l'eccesso d'informazione, ma l'eccesso d'insignificanza». Argomento del Manifesto XXI - così è nominato il pamphlet - il giornalismo senza pubblicità. Vengono citati e raccontati i casi francesi Mediapart e Courrier International, e quello spagnolo di InfoLibre.
Ma anche l'Italia comincia a muoversi. Per esempio, con Internazionale, il cui modello prevede "anche" la pubblicità, ma non solo. Ed è di questi giorni l'annuncio della nascita di Inpiù, testata diretta da Giancarlo Santalmassi, accessibile solo con abbonamento nelle sezioni di notizie più sensibili. Il direttore sottolinea: «Oggi sapere di più, non attribuisce più potere. Sapere meglio, sì». Sempre Santalmassi sottolinea un evento la cui portata forse è sfuggita a molti: «In questi giorni - dice - Google ha dovuto firmare in Francia l'accordo che prevede il pagamento delle notizie. E' solo l'inizio di un quadro completamente nuovo dell'informazione, in cui la quantità conta sempre meno. La qualità sempre di più».
Google sembra si appresti a negoziare qualcosa del genere anche in Italia. Potrebbe essere la svolta verso una prima rivoluzione della stampa-on-line. Nella quale immaginare una gara sulla qualità, e in prospettiva immaginare una serie di portali specializzati e con lettori - anzi, qualcosa di più, sottoscrittori - fidelizzati al progetto, che con passione seguano, partecipino, contribuiscano alla sostenibilità della propria «preghiera del mattino».
Un mondo del giornalismo in cui, parafrasando la frase sull'azionariato di Enrico Cuccia, i lettori non si contino. Ma si pesino.