di Carlo Carboni

Forse l'avversario principale del welfare italiano, in questi anni, non è stato il rescaling globale dei territori né la crisi economica che accorcia le risorse disponibili, ma un ceto politico nazionale incapace di passare dall'elenco dei problemi (in odore di vecchie contrapposizioni ideologiche) al confronto sulle soluzioni e sulle decisioni da adottare nel merito.

Abbiamo qualche probabilità di migliorare il nostro welfare solo se le élite politiche, in particolare nazionali, cambieranno la loro attuale cultura politico-amministrativa, perforata dal campanilismo che guarda all'ospedale o alla scuola sotto casa e trascura i sistemi d'istruzione e di salute nazionali: la conseguenza è stata il naufragio del federalismo di pancia, ma in astinenza d'idee. Senza rendere efficiente e razionale l'azione dello stato centrale e della sua burocrazia, difficilmente cambierà qualcosa in un Paese che nel policentrismo racchiude la sua forza e la sua debolezza. In tempi di sofferenze sociali, la soluzione non è diminuire la spesa sociale. Sarebbe come segare il ramo su cui l'Italia comunque confida ed è seduta. Se escludiamo la spesa per interessi, la spesa sociale è circa il 40% della spesa pubblica, in linea con gli standard europei. Andrebbe dunque ridotto quel restante 60% (poco più di 400 miliardi) che consentirebbe d'iniziare ad abbassare la pressione fiscale. La via maestra è quindi ridurre la spesa pubblica improduttiva, che negli anni ha creato consorterie a fini consensuali e ha alimentato rendite posizionali, a cominciare da quelle tediose (e finora invincibili) della politica.

Ovviamente, abbiamo bisogno di un welfare di nuova generazione: anche la spesa sociale andrebbe depurata da componenti assistenziali e clientelari, dalle sue distorsioni funzionali e distributive (Ferrera, Fargion e Jessoula 2012). A esempio, nonostante ci infervoriamo sulla riforma del mercato del lavoro, facciamo però orecchie da mercante sulle cifre ridicole che spendiamo per le politiche attive del lavoro e, se possibile, più effimere per i nostri giovani. Per cambiare registro, sarebbero necessari chiari indirizzi a livello centrale in materia di welfare. Come accaduto anche per la politica industriale, la debolezza dell'impianto politico-culturale nazionale ha lasciato correre impostazioni di welfare locale molto diverse tra loro nelle varie regioni. Questa variabilità territoriale è stata accentuata anche dalla presenza nei territori di culture amministrative di diversa solidità e tradizione storica (asburgica, napoleonica, leopoldina, borbonica e, poi, subculture bianche e rosse, e così via, A. Ciarini 2013), le quali hanno esploso modelli di welfare regionale assai diversi tra loro: quello lombardo-veneto (più orientato al mercato), quello tosco-emiliano (incline a una programmazione dirigista mitigata da municipalismo e neocorporativismo) e quello meridionale (assistito clientelare attento a occupazione pubblica e trasferimenti alle famiglie).

Nell'Italia policentrica, il welfare che conta è oggi quello regionale e locale. Tuttavia, la variabilità territoriale di culture amministrative e di performance è stata così ampia da rendere il federalismo, di fronte alla crisi, una favola priva di prospettive concrete e praticabili, soprattutto in assenza di un saldo ponte di comando nazionale. Per questo, a dispetto della dimensione prevalentemente regionale-locale del nostro welfare, oggi è necessario un progetto nazionale mirato a una maggior convergenza dei territori su buone pratiche e politiche sociali efficaci, che pure non sono mancate a macchia di leopardo nel paese.

Il problema non è solo il Mezzogiorno come comunemente si è portati a credere. Al Sud, si sono verificati vari tentativi regionali di rottura della tradizionale cultura politico amministrativa. Bassolino, nei suoi primi anni di governo a Napoli, portò una ventata di cambiamento, ma le sue innovazioni furono cavalcate da tradizionali consorterie capaci anche di assecondarle pur di rimanere in sella (M. Maugeri 2009). La "primavera dei sindaci" sembrò in grado di cambiare la cultura amministrativa e welfaristica, ma anche questa stagione subì la rimonta della plasticità gattopardesca delle clientele, signore della raccolta del consenso. Clientelismi e consorterie non hanno comunque risparmiato anche gli altri modelli più virtuosi. Basta ricordare ciò che è accaduto in Lombardia o il clientelismo, sotto traccia, di quel capitalismo politico di cui sono protagoniste le aziende municipalizzate.

Tuttavia, questi sono i problemi, mentre occorrono soluzioni che possono scaturire da un confronto (quale miglior occasione se non la campagna elettorale?) non solo "tecnico" sui famosi costi standard dei servizi pubblici, ma anche politico tra i modelli di welfare regionale con resa migliore: da un canto, la ricetta lombardo-veneta che, seppure con pratiche differenziate, a suon di voucher apre al mercato e alla big society; dall'altro, gli ingredienti del municipalismo e la sussidiarietà orizzontale che caratterizzano la buona qualità dei servizi in Toscana ed Emilia Romagna.

Il welfare resta uno strumento straordinario, insieme alla crescita, per affrontare e andare oltre la crisi, ma occorre rimuovere la pigrizia politica nazionale, propensa alla non scelta e alla non decisione pur di non scontentare le istanze policentriche e campaniliste. Fuori dal palazzo c'è una società stanca di false partenze: non si tratta solo di quella parte che, con la crisi, è precipitata nella povertà relativa, ma anche di un ampio ceto medio che, per quanto frammentato, è la vittima principale della crisi e ne è anche il principale taxpayer. È sfiancato dalla rincorsa a un futuro che gli sfugge; dal prossimo governo si aspetta anche cambiamenti di cultura amministrativa e un welfare di nuova generazione.

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