Ogni rivoluzione vive il suo momento di crisi, quando sembra che i problemi in campo siano sempre gli stessi e che il nuovo potere non sia diverso da quello precedente. Chi è giunto al governo accusa gli oppositori di essere "forze controrivoluzionarie" magari foraggiate dall'estero o da chi vuole fare "deragliare" il radioso cammino cominciato dopo la caduta del dittatore. Chi sta fuori dal palazzo invece accusa i nuovi potenti di avere "tradito la rivoluzione": così si invita di nuovo il popolo a manifestare, negli stessi modi e negli stessi luoghi "gloriosi" dove tutto era cominciato. Così sta accadendo in Egitto, solo che questa crisi si sta pericolosamente allungando nel tempo e si sta aggrovigliando su se stessa: a due anni dalla caduta di Mubarak, si può dire che il Paese è nel caos.
I commentatori arabi si dividono come la piazza del Cairo: i più filo-governativi, dalle colonne di giornali come Al Ahram o Al Watan, oscillano dall'invito a non affrettare i tempi, a non volere tutto e subito, fino all'attacco frontale contro i manifestanti additati di essere black block o addirittura terroristi; i quotidiani e i siti dell'opposizione - che hanno il volto di discussi personaggi politici come Moussa, El Baradei o Nur - grondano di polemica contro il presidente Morsi, i Fratelli Musulmani e i salafiti. Ambedue gli schieramenti concordano, almeno a parole, sulla necessità di trovare un qualche tipo di accordo che garantisca la transizione. Altrimenti - così dicono tutti - l'Egitto potrebbe andare incontro ad esiti violenti e imprevedibili.
Un primo assaggio negli scorsi giorni. Occorre evidenziare che l'Egitto basa la sua economia su tre pilastri: il Nilo, il Canale di Suez, il turismo. Quest'ultima voce è profondamente in rosso almeno da due anni, mentre Suez resta di vitale importanza strategica; non parliamo del fiume che identifica il paese da millenni. Morsi è stato molto attento su questi due versanti. Per la prima volta dopo 25 anni un presidente egiziano si è recato in Etiopia per cercare di risolvere (senza ovviamente riuscirci) la decennale controversia sullo sfruttamento del Nilo, come segnalato in un approfondimento sul numero di gennaio di Nigrizia.
Ogni scintilla è buona per far scoppiare l'incendio. Gli scontri del 25 gennaio si sono verificati a Port Said a causa della pena capitale inflitta a 21 persone ree di aver fomentato, durante una partita di calcio, violenze che lasciarono a terra 70 vittime. Le strade della città si sono trasformate in campi di battaglia; ma il problema riguarda il Canale: non avere sotto controllo questa zona significherebbe perdere il controllo del Paese. Per questo il presidente ha usato il pugno duro decretando il coprifuoco.
Sembra però che tale provvedimento non sia rispettato. Asianews riporta le parole del giornalista egiziano Andrè Azzam che si riferisce soprattutto alla posizione della minoranza cristiana: ""I Fratelli Musulmani - spiega Azzam - sono lontani dalle esigenze della popolazione egiziana. La loro autorità e la loro popolarità stanno scendendo di giorno in giorno, nessuno vuole dialogare con loro perché essi non hanno argomenti e vogliono difendere solo il potere guadagnato".
Il giornalista cita il doppio boicottaggio compiuto dalle Chiese cristiane - ortodossa, cattolica, protestante ed evangelica - e dai partiti di opposizione che nei giorni scorsi hanno definito "inutili e senza senso" i colloqui proposti dal presidente. In un comunicato stampa, p. Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica egiziana, ha dichiarato "che le sedute sono improduttive e non portano a nulla".
La minoranza cristiana e i partiti di opposizione non sono i soli a prendere le distanze dall'establishment islamista. Azzam riferisce che anche la polizia e le stesse autorità di al-Azhar stanno boicottando apertamente il governo: "Dopo i fatti di Port Said gli agenti non riconoscono più l'autorità del ministero degli Interni, anch'esso dominato dagli islamisti. Nei giorni scorsi essi hanno impedito ai funzionari di partecipare ai funerali dei poliziotti morti durante l'assalto degli ultras dell'al-Masri alle caserme di polizia della città all'imbocco del canale di Suez. Lo scorso 24 gennaio Ahmed al-Tayeb, grande imam di al-Azhar si è rifiutato di partecipare alle celebrazioni per la nascita di Maometto e da allora vive in una sorta di esilio volontario nel suo villaggio natale vicino a Luxor. Teme l'influenza degli islamisti che vorrebbero governare anche la storica università islamica".
D'altra parte i Fratelli Musulmani vincono sempre le elezioni ed è con loro che bisogna trattare ed è solamente insieme a loro che l'Egitto potrebbe uscire da questa situazione. In mezzo resta sempre l'incognita esercito. Tutore dell'ordine, sempre accusato di organizzare colpi di stato, in questo frangente l'esercito sembra a volte sostenere il presidente Morsi, a volte sembra dare per scontato il collasso del nuovo potere, dicendosi pronto ad usare ogni mezzo per riportare l'ordine, implicitamente anche ad esautorare chi non è in grado di garantire la sicurezza.
Gli abusi delle forze dell'ordine sono continuati in questi giorni di rivolta ma in realtà non si sono mai fermati in questi due anni di transizione. E le organizzazioni internazionali non possono fare altro che denunciarli, come fa Amnesty International: "Dalle testimonianze raccolte sul campo da Amnesty International a Suez, emerge un preoccupante quadro di uso eccessivo della forza, anche in circostanze in cui non era necessaria o quando il comportamento dei manifestanti non poneva alcuna imminente minaccia.
"Mentre continuano le manifestazioni per ricordare il giorno di sangue della ?rivoluzione del 25 gennaio', è fondamentale che le autorità egiziane ordinino in modo chiaro alle forze di sicurezza di rispettare la libertà di riunione pacifica e di evitare l'uso eccessivo e non necessario della forza. Le autorità egiziane devono far sapere che chi ricorrerà all'uso arbitrario ed eccessivo della forza sarà chiamato a risponderne di fronte alla giustizia" - ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
"Il ricorso alla violenza da parte di alcuni manifestanti non può dare carta bianca alle forze di sicurezza per picchiare e uccidere chiunque. Tutto questo avviene dopo decenni di azioni impunite, compresi omicidi" - ha aggiunto Sahraoui.
A Suez, il 25 gennaio, sono state uccise almeno nove persone, tra cui un poliziotto. Dopo una manifestazione di migliaia di persone, compresi donne e bambini, conclusasi di fronte alla sede della direzione della Sicurezza, le forze di polizia hanno iniziato a lanciare gas lacrimogeni. Dopo che un militare impiegato nei reparti antisommossa della polizia era stato gravemente ferito al collo, gli agenti hanno preso a sparare all'impazzata causando almeno otto morti".
Piergiorgio Cattani