L'economia della conoscenza non può fiorire senza «un ruolo progettuale e di spesa pubblico»
«Non ha senso parlare di green economy se poi deve tradursi nel comprarne la tecnologia all'estero»
Daniela Palma, coordinatrice dell'osservatorio Enea sull'Italia nella competizione tecnologica internazionale
Dall'intervento di Daniela Palma alla Conferenza programmatica della Cgil. In allegato il testo integrale
La ricerca in Italia - nonostante l'enfasi con cui è trattata dai grandi mezzi di comunicazione - vive da tempo una stagione di tagli, confermati anche ultimamente dalle disposizioni della "Spending Review", con un taglio a regime al fondo ordinario degli enti di ricerca di 88 milioni di euro dal 2013. Nei confronti internazionali le cifre parlano chiaro e ci dicono che ancora nel 2011 l'Italia investe in ricerca poco più dell'1% del Pil, un dato pari a circa la metà di quello della media europea (Ue27) e meno della metà della media Ocse, mentre la spesa attribuita alle imprese è di poco superiore allo 0,5% del Pil, con ciò segnando una distanza ancora più forte (quattro volte circa) sia dalla media Ue che da quella OcseE (3 volte circa).
Ma basse spese in ricerca, diminuzione del numero dei ricercatori, "fuga dei cervelli" italiani e soprattutto mancata attrazione di ricercatori dal resto del mondo, sono solo i sintomi più espliciti, ancorché importanti, di un fenomeno che attanaglia la realtà italiana da ormai troppo e lungo tempo e che potremmo così definire: il mancato riconoscimento che la crescita della conoscenza ha per lo sviluppo del Paese, ed il ruolo sempre più significativo che la conoscenza ha nel condizionare il paradigma della produzione economica.
Non è un caso, infatti, che oggi si parli sempre di più di "economia della conoscenza", di nuove "catene del valore" che vanno dalla produzione manifatturiera ai servizi, e che traggono il loro humus dalla capacità che ha il "sapere" di tradursi in risposte ai bisogni dell'economia e della società. Questa capacità si chiama innovazione, ed è diventata fattore irrinunciabile dello sviluppo, modificando non solo l'assetto delle economie maggiormente industrializzate, ma facendo anche da volano al decollo dei "paesi emergenti" e condizionando in tal senso l'intero quadro della divisione internazionale del lavoro. Questo è il dato importante con il quale misurarsi, e intorno al quale costruire ipotesi di rilancio economico e dell'occupazione. Perché è intorno a questo dato che si sono andate costruendo le nuove basi della competitività, assegnando sempre meno peso al costo del lavoro e sempre più importanza all'investimento in ricerca e in lavoro qualificato.
Il depauperamento della base scientifica e tecnologica nazionale - che data da più di due decenni - ha accompagnato il declino economico dell'Italia, a fronte di un crescente divario competitivo con i principali paesi. L'Italia ha tentato di attenuare - finché possibile - questa divergenza facendo leva sulle svalutazioni competitive. Ma oggi questo non è più possibile: non solo perché l'appartenenza all'euro impedisce quella pratica, ma anche perché la domanda del mercato privilegia le produzioni ad alta intensità tecnologica. Prodotti che l'Italia non vende in adeguata misura, ma che consuma a ritmi crescenti, in quanto paese a forte industrializzazione, dando così vita a deficit commerciali crescenti, che trovano sempre meno compensazione dai ricavi dei settori più tradizionali e che, dato il tendenziale calo della domanda in questi ultimi, sono destinati a peggiorare.
Il deficit commerciale nei prodotti high-tech - giunto a più di 20 miliardi di $ correnti nel 2010, e solo di poco inferiore nel 2011, su livelli peraltro paragonabili al periodo precedente la crisi internazionale - è l'espressione più netta di un vincolo estero destinato a farsi strutturale, e che in quanto tale non può che deprimere il potenziale di crescita del Paese e la creazione di posti di lavoro che ne consegue. E che l'Italia consumi, ma non produca innovazione, è sottolineato con forza anche dai dati sui brevetti prodotti, che segnano per il nostro Paese - in termini di numero di brevetti per milione di occupati - un gap di circa il 20% rispetto all'area euro, con differenze ancora maggiori se il confronto avviene con la Germania - che ne produce il doppio - o con i paesi scandinavi - quali la Danimarca e la Svezia - il cui livello di brevettazione è circa tre volte superiore.
La ripresa dell'investimento in ricerca rappresenta dunque un tassello chiave del rilancio del potenziale di crescita di tutta l'Italia. Tuttavia i ritardi accumulati non sono indifferenti rispetto alle terapie da mettere in campo. Pensare di eliminare questi ritardi con qualche incentivo alla spesa in ricerca da parte di un sistema di imprese diversamente orientate in termini strutturali e di specializzazione produttiva, sarebbe un errore evidente.
La crisi in cui si ritrova oggi l'Italia è dunque duplice, perché riassume sia la dimensione internazionale, sia quella che è specifica del ritardo scientifico e tecnologico di cui si è detto. E bisogna tenere bene a mente questa duplicità, perché i problemi posti dalla crisi internazionale e dall'euro (in quanto costruzione insufficiente), non sono del tutto assimilabili a quelli del ritardo tecnologico. E' evidente che le "strettoie" dell'euro pongono delle difficoltà in termini di azioni sulle questioni del ritardo tecnologico. Ma se non si hanno sufficientemente chiari i fattori responsabili dello specifico declino italiano - declino che nel 2003 proprio la Cgil riconobbe aprendo un dibattito nell'ambito del quale molta della riflessione economica si confrontò per un po' di anni fino alle porte dell'attuale crisi - non è pensabile concepire azioni in grado di rimettere in moto la crescita, né si può - dato il carattere strutturale del deficit scientifico e tecnologico - immaginare che una ripresa del ciclo internazionale sia in grado di sanare tale ritardo.
Non ha alcun senso parlare di nuovo modello di sviluppo senza preoccuparsi degli strumenti necessari per affrontarlo, per renderlo effettivo; non ha alcun senso parlare di maggiore sviluppo sostenibile se poi si fa fatica anche a smaltire i rifiuti dell'attuale sistema produttivo; non ha alcuna senso parlare di "green economy" e di nuove fonti energetiche se poi tutto questo deve tradursi nell'andare a comprare all'estero le tecnologie connesse. Non ha alcun senso parlare di competitività economica, di occupazione e di buon lavoro, se poi ci si specializza su prodotti a minor valore aggiunto. Anche per valorizzare beni e risorse specifiche - come i nostri beni ambientali e culturali - è necessario disporre di capacità specifiche, competitive con quelle offerte da altri. E si potrebbe continuare ma la conclusione sarebbe sempre la stessa: quella di trovare il nostro Paese lungo un percorso di declino perché privo degli strumenti essenziali per reggere un confronto internazionale. Quindi anche le politiche industriali variamente espresse in questi anni o sono state di fatto inesistenti o devono essere comunque riconsiderate criticamente perché i risultati sono stati inferiori alle attese e certamente alle necessità.
Ci sembra, dunque, che la politica debba trovare la forza e la convinzione per definire il necessario calibro di intervento pubblico. Deve essere chiaro che non si tratta di una scelta a priori statalista e contro la libera manifestazione dell'iniziativa privata, ma "semplicemente" occorre prendere atto che se per affrontare questa nostra specifica crisi, se partendo dalle situazioni date, dovessimo attendere che la nostra iniziativa privata, ancorché incentivata finanziariamente, possa raggiungere i livelli di risorse impegnate nel sistema dell'innovazione degli altri paesi nostri partner europei, dovremmo attendere ormai - ammesso che possa partire - alcuni decenni, anche se nel frattempo gli altri stessero fermi.
La nostra situazione rappresenta non solo una smentita a tali concezioni ma, anche se non si volesse condividere questa analisi, una condizione difficilmente modificabile senza chiamare in causa un intervento pubblico. Peraltro sembra che incomincino a manifestarsi anche in istituzioni come il Fondo monetario internazionale elementi di critica verso politiche economiche che puntino subito e solo su interventi di cosiddetto "rigore finanziario", recuperando cosi impostazioni diverse, rimaste sino ad ora, tuttavia, minoritarie. Questa evoluzione, peraltro, è essenziale ma non sufficiente, perché prendere atto dei nuovi rapporti tra conoscenza scientifica, capacità tecnologiche e qualità dello sviluppo rappresenta una operazione che comporta non solo una volontà politica, ma anche la creazione di strumenti nuovi senza i quali anche quella volontà resterebbe del tutto velleitaria e continuerebbe a prevalere la forza del declino.
Dall'analisi effettuata scaturisce pertanto una prima importante considerazione: che gli interventi diretti alla ricerca e all'innovazione dovranno essere significativi non solo in quantità, ma anche in qualità, investendo in maniera coordinata l'intero sistema formativo, scientifico e produttivo. E' necessario, in altri termini, l'istituzione di una "regia" del "sistema della conoscenza e dell'innovazione" trasversale rispetto all'attuale separatezza degli attuali ministeri, in cui si formi il disegno di trasformazione del Paese definendo progetti e stabilendo risorse, e in una veste che consenta, sui medesimi temi, d'essere presenti ai livelli comunitari.
L'elaborazione di una strategia per un rilancio della ricerca in Italia traduce in definitiva l'obbiettivo di far crescere l'occupazione nell'intero Paese grazie a un cambiamento del modello di sviluppo, dove la conoscenza in tutte le sue declinazioni risulta essere ormai condizione imprescindibile. Si tratta certamente di un obiettivo tanto ambizioso quanto impegnativo, e tuttavia irrinunciabile se si vogliono creare non solo le premesse per una uscita dalla crisi, ma anche le condizioni strutturali che mettono l'Italia in grado di confrontarsi competitivamente sui mercati internazionali tutti, tenuto conto che anche lo sviluppo delle "economie emergenti" sta ormai procedendo nel solco dell' "economia della conoscenza". Solo andando in questa direzione sarà possibile invertire il segno del declino della produttività che da lungo tempo condiziona ormai la crescita dell'Italia.
Tale declino appare infatti segnato dalla progressiva perdita di valore della produzione nazionale, avendo il Paese sempre più radicato la propria specializzazione produttiva lontano dai settori che sono al centro dell' "economia della conoscenza". Ma deve essere altrettanto chiaro che questo processo di cambiamento di rotta non potrà avvenire senza un'azione programmata e coordinata tra attori istituzionali pubblici ed organismi pubblici di ricerca. Da nessuna parte del mondo le fondamenta dell' "economia della conoscenza" sono state poste in assenza di un ruolo progettuale e di spesa pubblico, per l'onere e l'incertezza che qualunque processo di innovazione reca con sé e che il sistema delle imprese - per costruzione - non sarebbe in grado di affrontare da solo. Di tempo ne è stato perso già troppo, e continuare su posizioni rinunciatarie può mettere seriamente a repentaglio la capacità di sviluppo del nostro Paese. E' questo il momento di agire, e al più presto.