CSR 2.0

Scritto da Giovanni Pizzochero

Nonostante i numerosi tentativi istituzionali e accademici, non esiste una definizione univoca del concetto di responsabilità sociale d'impresa (o corporate social responsibility - CSR) perché non esiste un'unica responsabilità sociale d'impresa: esiste una responsabilità per ciascuna impresa, e maggiore è il grado di personalizzazione della disciplina, maggiore ne è l'efficacia strategica per la singola organizzazione.

La CSR si basa sull'assunto per cui il ruolo dell'impresa non si esaurisce nella funzione di produzione di beni e di erogazione di servizi e nella conseguente creazione di valore economico. Tutt'altro. Le organizzazioni sono sistemi aperti, che interagiscono con una molteplicità di individui e di gruppi - gli stakeholder - e che attraverso questa interazione sono in grado di contribuire a creare (o, troppo spesso, distruggere) un valore più ampio di quello economico, ossia il valore sociale.

La CSR dunque contribuisce alla strategia aziendale nella misura in cui è in grado di creare valore per tutti gli stakeholder (e non solo per il cliente e l'azionista, che in una logica profit-oriented vengono considerati destinatari chiave della strategia d'impresa). Creare ad un tempo (e dunque mediante la medesima azione) valore per l'impresa e per tutti gli stakeholder: ecco l'essenza della responsabilità sociale, ecco ciò che un paio d'anni fa, Michael Porter e Mark Kramer, attraverso un articolo pubblicato sull'Harvard Business Review, hanno sistematizzato con la definizione di "shared value". Niente di travolgente, ma solo l'affermazione di un solido postulato, finalmente scolpito nella roccia. La vera CSR è integrata nella strategia e nel business dell'impresa. Tutto il resto è noia. O meglio, è filantropia, comunicazione (e attenzione al greenwashing!), restituzione al territorio per assicurarsi la licenza ad operare. L'impresa responsabile integra la sostenibilità (ovvero la visione di lungo periodo, il rispetto per il talento, per i diritti e per l'ambiente, la tutela del territorio) nelle proprie operazioni core e in tutta la catena del valore: una banca nel processo di credito, un'azienda alimentare nella filiera, uno stabilimento produttivo nel processo, una farmaceutica nel farmaco e così via.

Includere l'etica nel business è un qualcosa che sta a metà tra fatto economico e fatto culturale. Porter l'ha intuito e nel documento "Measuring Shared Value" pubblicato lo scorso mese, abbozza un ambizioso tentativo. Includere nei sistemi di rendicontazione dell'impresa la misurazione del valore sociale generato. Tale misurazione ha obiettivi diversi rispetto agli altri sistemi di accountability già presenti nelle aziende quali, ad esempio, quelli che si concentrano sulla sostenibilità, l'analisi dell'impatto, la reputazione o il rispetto delle norme. La misurazione del valore condiviso si concentra sul punto di contatto tra creazione di profitto e "ruolo sociale" dell'organizzazione. In sostanza, include la rilevazione degli intangibili e si spinge a misurare il valore sociale generato.

Dal punto di vista operativo (tema su cui il rapporto di Porter risulta piuttosto carente), un percorso concreto di misurazione delle pratiche ad alto potenziale di generazione di valore condiviso (spesso già in essere, ma poco valorizzate) passa dall'identificazione degli asset su cui insistere nell'integrazione della proposta di valore, delle aree di intervento sul territorio a maggiore esigenza, dall'individuazione di proxy utili all'analisi e dell'esperienza di misurazione vera e propria dei "social outcome". Un percorso ancora tutto da sviluppare, ma che potrebbe essere fondato su alcune pratiche già note, come lo SROI (Social Return on Investement), per esempio. Un percorso che ad oggi funge solo da framework per l'applicazione di metodologie esistenti, valorizzate però secondo la chiave di lettura dello shared value.

Il tema del valore condiviso appare quanto mai d'attualità. Ma come può essere declinato? L'economia del nostro Paese si basa su una piccola media impresa a gestione familiare o parzialmente manageriale, dove la responsabilità sociale (spesso senza essere nominata) è di frequente, in misura variabile, parte dello scheletro valoriale che muove l'imprenditorialità. Il rapporto tra impresa e territorio è osmotico, reciproco, strutturato.

Pertanto, le piccole e medie imprese italiane sono quasi naturalmente soggetti potenzialmente in grado di attivare partnership, in particolare in aree a vocazione distrettuale. Attivare processi congiunti di identificazione e valorizzazione di pratiche "shared value" consente di incrementare la scala degli interventi e degli impatti, consentendo di raggiungere risultati di largo respiro sui territori di riferimento.

Avviare percorsi di governo del valore condiviso generato dalle piccole e media imprese, in particolare con un approccio collaborativo, permetterebbe ai distretti o alle aree ad alta omogeneità produttiva di:
   
Creare uno scenario territoriale solido nella consapevolezza che la  competitività territoriale supporta la competitività d'impresa;
   
Rafforzare il legame tra imprese e territorio (e in particolare con le realtà del terzo settore);
   
Definire un punto di riferimento per il consolidamento della cultura territoriale, rispetto alla quale la responsabilità d'impresa giochi un ruolo identitario
   
Avviare processi di networking tra imprese e soprattutto tra imprese e soggetti istituzionali;
   
Rilanciare l'innovazione, la ricerca e lo sviluppo, eventualmente con un taglio «social»;
   
Favorire un nuovo posizionamento, anche sotto il profilo comunicazionale.

Se fino ad oggi il tema del valore condiviso è stato esplorato solo da grandi aziende e multinazionali, mai come in questa fase storica il tessuto produttivo italiano può giocare un ruolo di primo piano nel processo di riconciliazione tra impresa e società (di cui il caso Ilva è solo l'esempio più eclatante). Basta trasformare i valori in valore. E viceversa.

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