Elisabetta Gualmini
I segnali ci sono tutti. Il film lo abbiamo già visto.
Il lavoro sarà il vero banco di prova del nuovo governo, il crinale su cui già si stanno ingarbugliando le promesse di matrimonio tra Monti e Bersani (con botte da orbi da entrambe le parti), il test dietro cui si nasconde la possibile rovina. Se va meglio, lo stallo.
Primo segnale. L'inconciliabilità delle posizioni in campo.
L'agenda Bersani-Fassina - desumibile solo dalle dichiarazioni pubbliche del secondo, dato che la Carta degli Intenti è troppo generica sul punto - non ha nulla, ma proprio nulla in comune con l'agenda Monti-Ichino. Non c'è una virgola che si sovrapponga.
Da un lato, la sacralità del contratto nazionale di lavoro e il riferimento ancora dominante al mondo dell'occupazione dipendente, dall'altro il tifo per la contrattazione aziendale e lo sguardo alla galassia del lavoro autonomo e parasubordinato.
Da un lato, il rafforzamento delle tutele (reddito minimo, ammortizzatori, con quali risorse ancora non è chiaro), il rilassamento dei vincoli di bilancio europei e il giro di vite alla flessibilità (che dovrebbe «costare» di più alle aziende), dall'altro un contratto unico per tutti con tutele crescenti, in cambio però di una maggiore flessibilità a favore delle imprese. Due visioni legittime, ma opposte. Il che ci porta esattamente al film che abbiamo già visto, più di una volta. Riavvolgiamo la bobina e torniamo indietro. E rischiamo di infilarci in un dibattito parlamentare sfinente come quello del 1997 sul Pacchetto Treu: 700 emendamenti e 9 mesi dalla firma del «Patto per il lavoro» per introdurre il lavoro interinale (che era peraltro obbligatorio dopo due sentenze di condanna della Corte europea) e compromesso sul filo di lana con Bertinotti (vincoli e paletti all'uso dell'interinale per prevenire possibili abusi, via via erosi con emendamenti successivi, e borse lavoro al Sud). O come quello sulla Legge Biagi del 2003, diventata bersaglio principale della campagna elettorale del 2006, con Epifani allora segretario della Cgil (oggi candidato Pd) che ne chiedeva l'abrogazione e i Ds stretti tra due fuochi. O come un anno fa, quando ai tempi della riforma Fornero, la proposta Ichino viene respinta al mittente, visti i veti del Pd. Fassina non lo manda a dire: «Quello che propone il Professore è chiaro; lo voleva fare l'anno scorso e noi l'abbiamo impedito» (così al Manifesto, pochi giorni fa). Pensare oggi che il Pd possa governare insieme al Centro e che tutto finisca a tarallucci e vino è un'illusione (per gli elettori).
Secondo segnale. Il ritorno del collateralismo. Insieme alle divisioni tra le forze politiche sono arrivate puntuali le divisioni tra le parti sociali. Che non agevoleranno l'accordo su riforme ampie e radicali. Per la prima volta dopo tantissimi anni, Confindustria ha delineato una «sua» agenda molto dettagliata su misure di crescita e politica industriale (sostegno alla manifattura, smobilitazione dei pagamenti alle imprese, burocrazia leggera, flessibilità), incassando, senza troppe sorprese, il sì del Pdl e il no, almeno sulla flessibilità, della Cgil. Oggi sarà la volta del «Piano lavoro» della Cgil, alla presenza di Bersani e Vendola, e domani, verosimilmente, della Cisl più filomontiana.
Fratture su fratture, in un Paese già a brandelli. Con uno scontro così ruvido, non sarà facile trovare una direzione chiara e un equilibrio duraturo. Bersani ripete come un martello: la-vo-ro. Senza entrare troppo nei dettagli. Se la coalizione Pd-Sel (e Cgil) avrà una maggioranza autosufficiente sia alla Camera che al Senato, Bersani si troverà a governare su una linea decisamente spostata a sinistra, pur godendo del sostegno di solo il 30% dell'elettorato (al netto dell'astensione). Se ci saranno i numeri per governare, alternativamente, con Monti o con Vendola, potrebbe teoricamente scegliere una linea più moderata, sempre che gli arrembanti e numerosi «giovani turchi» presenti nei gruppi parlamentari Pd glielo consentano. Se dovrà mettere insieme, per forza di cose, Monti e Vendola, con il secondo costretto a radicalizzarsi sempre di più per distinguersi da Ingroia e Grillo, lo stallo è assicurato. Solo che oggi i cittadini l'inconcludenza della politica non la tollerano più.
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