di Francesco Montorsi
WASHINGTON - L'Fmi ripesca Keynes. Olivier J. Blanchard, capo economista del Fondo monetario internazionale, ha recentemente pubblicato un rapporto del Fmi sulla crescita economica. Dietro il complicato articolo sui «moltiplicatori fiscali», si cela in parole povere una difesa della posizione keynesiana su ed una critica delle recenti cure messe in pratica contro la crisi. Ad un primo superficiale sguardo, è come sembrerebbe come se la Curia Vaticana avesse accolto Voltaire nel suo pantheon di pensatori, e questo solo qualche decennio dopo la sua morte.
Keynes, economista americano del ventesimo secolo, ispiratore del New Deal, non ha mai avuto diritto di asilo nel tempio liberista del Fmi. E' da questa roccaforte del pensiero dell'economia di mercato, che gli economisti e i responsabili politici hanno negli ultimi anni, paese dopo paese, crisi dopo crisi, elaborato ed a volte imposto le loro ricette di «austerity»: meno spesa pubblica per far ripartire l'economia. Una visione, diametralmente opposta, parlando semplicisticamente, a quella degli economisti keynesiani, considerati generalmente «più di sinistra» e fautori degli investimenti di stato.
I «moltiplicatori» studiano l'impatto sulla crescita economica di politiche fiscali ed economiche, come la diminuzione della pressione fiscale, la diminuzione del deficit pubblico o l'ammontare degli investimenti dello stato. Gli economisti di scuola keynesiana sostengono generalmente che l'aumento della spesa pubblica inneschi una spirale positiva che contrasta l'aumento del debito corrispetttivo. In altre parole, la crescita determinata dagli investimenti pubblici supera ampiamente gli effetti recessivi. Una visione che si oppone radicalmente alla visione della teoria classica dell'economia, che prevede un ruolo minimo per lo stato.
Olivier Blanchard, nel suo intervento, ha parlato tra l'altro del «moltiplicatore fiscale», cioè del rapporto tra tagli al deficit e diminuzione della crescita. Secondo l'economista francese del Fmi, questo rapporto è molto diverso da quanto si pensa generalmente - diverso soprattutto da come viene calcolato nelle teorie attualmente adoperate. Gli effetti recessivi determinati dalla diminuzione del deficit sono molto più alti di quelli previsti nei tradizionali modelli predittivi usati dal Fmi o dalla Bce.
Si tratta di una verità che ha la forza di una bestemmia pronunciata nel tempio, anche se per alcuni è scontata. Sono tanti i ricercatori che hanno notato come, negli ultimi anni, le previsioni economiche delle banche centrali e istituzioni economiche, dalla Bce al Fmi, siano regolarmente riviste al ribasso. La flessione del Pil italiano nel 2012 si sta rivelando sei volte maggiore di quella prevista un anno fa dal governo (-2,4% contro la previsione di -0,4%) e la Commissione Europea sovrastima le performance greche di oltre sei punti percentuali all'anno da diverso tempo. Questi errori sono dovuti ai modelli economici liberisti che giungono sino a negare del tutto l'effetto recessivo dei tagli della spesa pubblica e che, d'altro canto, sottostimano, gli effetti di crescita degli investimenti dello stato.
Ma in questo contesto, dopo anni di politiche di austerità e di fronte alle previsioni costantemente disattese, persino al Fmi, il sancta sanctorum della tradizione liberoscambista, qualcuno si è accorto che dei modelli alternativi sono forse più adatti ad affrontare la complessità della situazione.