E dal New York Times arriva una lezione per tutti.
La Cgil intreccia occupazione e green economy: 1 milione di posti in più in meno di un lustro.
Luca Aterini
2.020,668 miliardi di euro: l'asticella del debito pubblico italiano ha segnato, a novembre 2012, un record che pesa come un macigno sulle ormai prossime elezioni politiche. Poco importa che la Banca d'Italia, nel suo bollettino statistico, suggerisca che già a dicembre la soglia del debito dovrebbe essere scesa sotto la quota-simbolo dei 2.000 miliardi di euro. Nei primi 11 mesi dell'anno appena trascorso, il debito pubblico italiano è aumentato di 113,9 miliardi. Non necessariamente un dramma, di per sé, ma certo un fallimento per la disciplina dell'austerity - in Italia portata avanti con decisione dal governo Monti - che sul rigore dei conti basa tutta la sua ideologia.
Che sia giunto il momento di cambiare strada in molti lo pensano, e da tempo. Persino il Fondo monetario internazionale è recentemente tornato alla ribalta nei titoli di cronaca, a causa del suo studio nel quale si ammette che i tagli alla spesa pubblica implicano una diminuzione del Pil più ampia e veloce di quanto non diminuisca il debito. Le stesse "rilevazioni", a dire la verità, vennero fornite dall'Fmi già ad ottobre ma, chissà perché, allora non ebbero la stessa eco. Un "banale" errore nella stima dei moltiplicatori fiscali, e la granitica austerità - inizialmente brandita con grande decisione dallo stesso Fondo - si sbriciola sotto gli occhi degli economisti. Se persino la matematica (che, come è tristemente noto a molti studenti, non è un'opinione) decide di mettersi di traverso, qualcosa non torna: dobbiamo cambiare strada. E, forse, anche in Italia stiamo cominciando a prendere sul serio l'idea di attrezzarci per il nuovo percorso.
Il 25-26 gennaio la Cgil presenterà a Roma, durante la Conferenza di programma del sindacato, un grande «Piano per il lavoro». Secondo gli studi del sindacato, tramite un'adeguata rimodulazione fiscale è possibile pescare «almeno 40 miliardi di euro annui» in più di adesso, e trovare così in 3-5 anni 80 miliardi di euro da investire per creare - direttamente e non - 1 milione di nuovi posti di lavoro. Il Piano, come anticipato dal Corriere della Sera, riecheggia «l'analogo documento presentato nel 1949 dal carismatico segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio al congresso di Genova». Il parallelismo con la ricostruzione post-bellica non è casuale e, anche stavolta, il documento della Cgil punta «a offrire un orizzonte strategico non solo al sindacato rosso ma a tutta la sinistra».
Dal poco che è possibile intercettare dalle anticipazioni, il Piano della Cgil sarà a forte tinte rosso-verdi: attenzione al sociale, com'è nella tradizione del sindacato, accompagnata alla green economy per il rilancio del Paese sulla via di un nuovo modello di sviluppo. «Innovazione manifatturiera, efficienza energetica (smart grid), agenda digitale, infrastrutture, prevenzione antisismica, messa in sicurezza dell'edilizia scolastica, riorganizzazione del ciclo dei rifiuti, diffusione della banda larga, percorsi turistici integrati, trasporto pubblico sostenibile, sviluppo rurale». Ma anche «programmi di manutenzione, bonifica dei siti industriali inquinati, conservazione del patrimonio culturale, riqualificazione urbana, valorizzazione di parchi e riserve naturali». Le stesse risorse necessarie all'applicazione di questo Piano dovrebbero provenire in parte provenire da tasse ambientali, nell'ottica di una globale riforma del sistema fiscale. Aspettiamo di poter leggere la versione definitiva su questo piano, ma le premesse sembrano portare con sé una buona dose di speranza.
Dovrà pensarla allo stesso modo anche Nichi Vendola, leader di Sel e uomo chiave nella coalizione che rappresenterà il centrosinistra alle prossime elezioni. In conferenza stampa, ieri, il presidente della Regione Puglia ha infatti che «oggi serve ricostruire l'economia italiana. Se non si parla di green economy e di riconversione ecologica non c'è economia che tenga».
È dunque questo il terreno sul quale la sinistra dovrà convergere per offrire un contributo al rilancio del Paese. Ci auguriamo lo faccia davvero, e non solo con parole imbonitrici prima delle elezioni politiche. Insieme a Anthony Giddens, oggi nell'editoriale in prima pagina de la Repubblica, crediamo che «oggi ci sono questioni, come quella dell'ambiente, che non sono più "di destra" o "di sinistra" sulla base dei vecchi parametri: il cambiamento climatico è un problema grave, urgente e profondo, che travalica ogni schieramento ideologico, perlomeno se guardato senza paraocchi». Destra e sinistra vogliono «ancora dire qualcosa» e una scelta di campo ha ancora intatto il suo valore. Ma qual è la parte difesa dall'ipotetico partito dell'economia ecologica? L'intreccio tra economia ed ecologia riguarda tutti i cittadini, contamina tutti gli aspetti della nostra vita.
Faremo in tempo ad accorgercene? Talvolta ci sono indizi incoraggianti in tal senso. Uno di questi arriva dal nostro ambiente, quello del vituperato giornalismo. Il New York Times ha deciso di chiudere la propria sezione dedicata all'ambiente. Come mai? Perché «nel 2009 - osserva il vicedirettore del quotidiano, Dean Baquet - l'ecologia era considerata una materia ?singola e isolata': oggi è parte integrante del dibattito politico, economico, nazionale e locale». Ecco che i 7 giornalisti che si occupavano della sezione non saranno licenziati, ma andranno a "contaminare" i propri colleghi con la loro esperienza. Per una volta, alla politica potrebbe far comodo prendere appunti da quello che una volta veniva chiamato il quarto potere e garantire un passaggio a portatori sani del virus ecologista.