Tempo di bilanci? È ora di cambiare indicatore.
Emaunele Campiglio e Luciano Canova approfondiscono il tema su Quattrogatti.info
Luca Aterini
Cambia l'anno e, come sempre accade, è tempo di bilanci. E quello della nostra economia - difficile stupirsene - non è affatto incoraggiante. L'Istat registra infatti per il III trimestre del 2012 un -2,4% del Pil nazionale rispetto al III trimestre del 2011. L'ennesimo dato negativo, ma non possiamo fermare qua l'analisi. Se i bilanci sono seri, dovremmo chiederci anche se l'unità di misura utilizzata (ossia il Pil) rimanga la migliore possibile.
La risposta è semplice: no. Difficile tra l'altro individuare un valido indicatore alternativo ma, come ricorda il premio Nobel per l'economia Amartya Sen, «Scegliere gli indicatori significa scegliere i fini ultimi della nostra società». Non è dunque un problema di poco conto sul quale concentrarci, e il perdurare della crisi potrebbe risultare un trampolino di lancio da non sottovalutare per un cambiamento di rotta in questo campo.
Già la Grande crisi del secolo scorso (quella crisi del '29 con la quale adesso di divertiamo a costruire parallelismi) presentò un'occasione speculare, dalla quale emerse come indicatore di valenza globale proprio il Pil. «La Grande crisi - scrive lo storico Eric Hobsbawm, recentemente scomparso, nel suo Il secolo breve - fu "una specie di canyon" che rese un ritorno al passato non solo impossibile, ma impensabile. Il liberalismo tradizionale era morto o sembrava destinato alla rovina».
Dal fondo di quel tunnel, «Una politica di governo alternativa, basata sulla direzione dell'economia a partire dal calcolo del reddito nazionale, non si sviluppò fino alla seconda guerra mondiale, anche se, forse tenendo d'occhio l'Urss, i governi e altri organismi pubblici negli anni '30 presero a considerare sempre di più le economie nazionali come un tutto unitario e a stimare la quantità del suo prodotto o reddito complessivo». I primi governi che adottarono «questo punto di vista - precisa Hobsbawm - furono l'Urss e il Canada nel 1925. Nel 1939 nove paesi avevano elaborato statistiche ufficiali sul reddito nazionale e la Società delle Nazioni aveva stime concernenti ventisei nazioni in tutto. Subito dopo la seconda guerra mondiale furono disponibili stime per 31 paesi, a metà degli anni '50 per 93, e da allora le cifre del reddito nazionale, spesso assai poco indicative della realtà del livello di vita delle popolazioni, vengono sbandierate dagli stati indipendenti quasi fossero vessilli nazionali».
Vediamo dunque come una transizione del genere interessò per svariati anni il sistema economico nazionale, non si concretizzò da un mese all'altro: anche i nostri giorni rappresentano adesso un terreno fertile dal quale far partire la via di un nuovo cambiamento. La domanda iniziale dalla quale muovere non potrebbe essere che una: cos'è il Pil? Una risposta non banale o cattedratica arriva dalla dinamica presentazione To Pil or not to Pil, come si misura il benessere sociale?, pubblicata su Quattrogatti.info in tre puntate (al momento è disponibile online la prima, alla quale seguiranno le due rimanenti) a firma degli economisti Emanuele Campiglio e Luciano Canova, che si spingono ben oltre la definizione del Pil come «valore dei beni e servizi finali prodotti in un certo intervallo di tempo (generalmente un anno) all'interno di un'economia».
Dell'indicatore economico più noto al mondo, i due economisti sottolineano infatti i paradossi - «L'inquinamento è positivo due volte per il Pil: è infatti il collaterale di un'attività economica inclusa nel Pil, e anche la conseguente necessità di bonifica è un'attività economica inclusa nel Pil. In termini di Pil, un'impresa inquinante è meglio di un'impresa "pulita"» - e le prospettive di cambiamento. Ma quali sono i principali deficit che ritardano l'adozione di un indice del benessere (non solo economico, ambientale e sociale) che possa essere comunemente accettato come alternativa al Pil? «Si tratta, in parte, di resistenze culturali - spiega Luciano Canova a greenreport.it - La letteratura sulla necessità di integrare il Pil con altre dimensioni è, invero, molto vasta e tradizionalmente accreditata anche a livello accademico. Semmai, il problema è precipuamente politico: come si passa dalla teoria alla prassi? Tuttavia, anche in questo senso si stanno facendo passi importanti, come mostrano gli sforzi di organizzazioni come l'Ocse o di governi come quello inglese. Un altro problema, inoltre, è il difficile passaggio dalla dimensione micro a quella macro: mi spiego. Ciò che, a livello di pratica quotidiana, è semplice da intuire per le sue ricadute positive sul benessere (e lo mostrano esperienze quali i Gas, la banca del tempo, il commercio equo e solidale, la spesa km 0, l'utilizzo di energie rinnovabili), come diventa, socialmente, un comportamento dominante? Quando un comportamento virtuoso diventa massa critica e ?contagia' gli altri?». Alcune risposte a questi dilemmi potrebbero venirci proprio dai modelli dell'economia comportamentale. Ma il «loro più grande aiuto - chiosa Canova - sta nel descrivere in modo più veritiero i meccanismi attraverso cui la mente prende decisioni. Tenere conto dell'irrazionalità, dell'errore di valutazione e, in ultima analisi, del peso che la sfera emozionale riveste sulla nostra vita».