Lorenzo Rossi
Per fortuna che c'è (ancora) Ken Loach. Per fortuna esiste un regista, e un uomo prima di tutto, che crede ostinatamente nelle persone e ancora più ostinatamente nel potere che il cinema ha di raccontarle, le persone. E per fortuna c'è chi, come lui, tutto questo lo fa fregandosene dei moralisti, dei benpensanti e del politically correct, riuscendo nonostante tutto a essere profondamente onesto, rigoroso e morale. Del resto la sua onestà sta nell'incapacità atavica e assoluta di mentire, di parlare in modo oscuro o di astrarre eccessivamente dalla reale i suoi racconti (anche se il suo film più significativo degli ultimi anni, Il mio amico Eric, sapeva far leva sulle corde del fantastico in modo esemplare), ma anche nella forza con cui sa guardare in faccia la realtà, senza eccessi didascalici, impastoiamenti ideologici o indugi paternalistici. E se la coerenza qualche volta lo costringe a prese di posizione e intransigenze anche piuttosto radicali (si vedano a tal proposito le recenti polemiche fra il regista e il Torino Film Festival), la militanza per le cause sociali di cui è inesausto e convinto assertore è ancor prima che un riflesso ideologico declinato alla materia cinematografica, una profonda e convinta appartenenza, un'essenza, uno stile di vita. E anche quest'ultimo lavoro non fa eccezione nel suo essere intriso di disagio, solidarietà, politica e riscatto sociale, anche se il tutto è travestito, come non è capitato troppo spesso nella filmografia del regista, di una vena comica e di un'allegria per nulla banali o fuori posto.
Del resto c'è un grande ottimismo in fondo a questa semplice storia di outsider dei nostri giorni. La storia di Robbie, teppistello della periferia di Glasgow che, costretto dal giudice a un periodo di servizio socialmente utile e convinto di voler cambiar vita dopo la nascita del figlio, con l'aiuto dell'assistente sociale Harry e degli altri giovani affidati alla riabilitazione e complice il suo innato e stupefacente naso per il whisky, riesce a trovare la propria vocazione e il proprio riscatto. Che poi questo riscatto si compia attraverso la messa in opera di un'enorme truffa ai danni di alcuni facoltosi, e stolidi, collezionisti di distillati, è un riflesso marginale, un problema secondario.
Per Loach quello che conta è tutto quanto nel film diventa propedeutico a tratteggiare le psicologie e la maturazione dei personaggi. Robbie che trova un motivo vero per vivere e che riesce a rinunciare al suo mondo fatto di rabbia e delinquenza con gli unici mezzi che conosce, Harry che più che un padre per Robbie e gli altri diventa una sorta di angelo custode: bonario, altruista e paziente oltre ogni tipo di retorica o intento commiserevole. Ma anche tutti gli altri, da Mo a Rhino che aiutano il protagonista a mettere in piedi la truffa, sino ad Albert, personaggio dalla psicologia e dall'intelligenza quasi inesistenti e al limite della caricatura, cui vengono assegnate le battute e le gag più esilaranti (quella dell'apertura alla stazione dove lui, sbronzo e riverso sui binari, dialoga con l'altoparlante, vale il film). Perché la commedia, come si diceva, è il vero motore della pellicola.
Loach scandisce i tempi del racconto con un ritmo perfetto e senza rinunciare al divertimento, a momenti di pura comicità e riuscendo perfino a tramutare l'alcol, elemento che nell'immaginario collettivo appartiene alla patria del vizio, dell'abuso e della perdizione, in qualcosa di salvifico e capace di dare sollievo. Un elemento talmente gradevole e benefico che se lo gustano persino gli angeli. La parte degli angeli che dà titolo del film è infatti quella piccola percentuale di whisky che ogni anno evapora dalle botti e sale fino in cielo per sollazzare gli abitatori celesti.