Giornata storica per l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che il 20 dicembre ha detto un secco "no" alle mutilazioni genitali femminili (MGF). All'unanimità, i 193 Paesi membri hanno convenuto che le mutilazioni costituiscono "un abuso irreparabile e irreversibile", e hanno accettato di "prendere tutte le misure necessarie per proibirle e proteggere donne e bambine da questo tipo di violenza". La risoluzione non ha valore vincolante, ma in ogni modo riflette un consenso che raramente si manifesta al Palazzo di Vetro e per questo riveste un peso morale e politico non indifferente.
Secondo le stime dell' Organizzazione Mondiale della Sanità , le neonate o le bambine in età pre-adolescenziale che hanno subito MGF sono circa 140 milioni; si calcola che ci siano più di tre milioni di nuove vittime ogni anno. Una pratica diffusa in ben 28 Stati al mondo, sparsi tra l'Africa, il Medioriente e l'Asia, e che annovera diverse tipologie di interventi: dal taglio della punta della clitoride alla sua scissione, o all'asportazione totale delle grandi labbra. La medicina conferma che non rivestono alcuna utilità pratica ma che hanno solo l'effetto di mutilare il corpo femminile per ridurne la sensibilità sessuale, spesso causando lesioni gravi (talvolta mortali) o numerosi infezioni e cisti, infertilità e problemi legati al parto.
La ragione di tale aberrazione, nient'affatto equiparabile a una forma di "circoncisione femminile", risiede ancora una volta in una forma di assoluto controllo sulla donna. È la tradizione, da non confondere con la religione, che sembra dettare la necessità di una "protezione" della (future) donne dai rapporti prematrimoniali e dalla promiscuità, attenuando il loro desiderio sessuale. Paradossalmente sono proprio le donne a esercitare tale pratica, così come loro stesse sono state mutilate da bambine. Un passaggio di consegne che dunque viene perpetuato di generazione in generazione, interno solo al mondo femminile ma dettato chiaramente da ragioni di genere, in quanto l'atto è sinonimo di docilità e obbedienza, e anche appartenenza alla comunità (evitando così l'emarginazione).
Non è un caso che il tema sia giunto per la prima volta all'attenzione dell'Assemblea Generale all'interno di un pacchetto sul "miglioramento delle condizioni delle donne" fino ad allora dibattuto solo in sede di Commissione sullo Status della Donna. Il focus particolare sui diritti di genere dei Millenium Goal dell'Organizzazione, ? non solo attraverso la promozione della parità di genere, ma anche mediante la garanzia di un'educazione primaria universale (con una forte implementazione di quella delle bambine), il miglioramento della salute materna (ossia la drastica riduzione della mortalità per parto) e l'arresto della diffusione di Hiv/Aids, specie da madre a figlio (informazione, buone pratiche e distribuzione di medicinali appaiono buoni rimedi in questo senso) ?, unito alla campagna UNITE contro la violenza sulle donne, promossa con vigore dal Segretario Generale Ban Ki-moon, hanno facilitato l'avvio di un dibattito su un tema che sempre aveva scatenato duri scontri nel consesso multilaterale.
A differenza di quanto si potrebbe pensare, la netta condanna pronunciata dall'Onu non è stata affatto un risultato facile da conseguire. Di sicuro si registra una vittoria per la Coalizione Ban FGM (sigla che sta per Female Genital Mutilation) che da anni è promotrice della campagna che mira a mettere al bando questa brutale violazione dei diritti umani e a rafforzare la consapevolezza a livello internazionale sul bisogno di una voce unica e decisa contro tali pratiche. Il lavoro diplomatico ha richiesto un'estrema cautela per evitare uno "scontro tra culture", specie in relazione al ruolo della donna nella società e ai suoi diritti. L'appoggio dato dai capi di Stato e di governo dell'Unione Africana nel luglio 2011 alla campagna contro le MGF aveva offerto un buon viatico, pur scontrandosi con forti sacche di resistenza presso i gruppi più tradizionalisti. Ad esempio, nella Conferenza continentale organizzata dalla ong No Peace Without Justice a Gibuti nel febbraio 2005, alcune autorità religiose islamiche avevano tentato di imporre nel documento finale la "legittimità dell'escissione parziale della clitoride se effettuata da medici o specialisti", legandola alla tradizione, dal momento che nessun precetto religioso impone o legittima la pratica. Il violento scontro verbale che aveva accompagnato il dibattito si era infine concluso con la cancellazione della frase dal testo. Tuttavia, stupisce il fatto stesso che essa sia stata avanzata, poiché gli autori la ritengono evidentemente una disposizione, ? e dunque una pratica ?, legittima.
Non stupisca invece che un dibattito del genere investa anche la giurisprudenza occidentale. Le MGF riguardano infatti, attraverso l'immigrazione, tutta l'Europa, che dunque è chiamata a interrogarsi se una tolleranza zero nei confronti di tali pratiche potrebbe davvero determinarne la cessazione o, purtroppo, indurrebbe una loro prosecuzione nell'intimo delle mura di casa con strumenti "artigianali" e in assenza di competenze mediche. Secondo alcuni sarebbe allora preferibile permettere delle forme di "mutilazione leggera" in ambiente ospedaliero così da salvare la tradizione di alcune comunità e la salute delle bambine. Una scelta sinora rigettata dall'Italia e dagli altri Paesi europei, in quanto sancirebbe di fatto la liceità della pratica, anche se attenuata nella violenza con cui è praticata e nei suoi effetti. Il che corrisponderebbe in buona sostanza a quanto richiesto dal gruppo di imam a Gibuti.
Miriam Rossi