I risultati di una ricerca norvegese contrastano le teorie turboliberiste dell'austerità applicata alla fasce più deboli della società.
Umberto Mazzantini
Quella di Monti e varie agende europee dicono che al totem della competitività bisogna sacrificare tutto, anche la giustizia sociale e la solidarietà, una messa in atto della shock economy all'europea che rischia di farci uscire dalla crisi con un panorama politico e sociale che somiglia molto alla situazione del'ex blocco comunista dopo la "cura" o al Cile dopo la dittatura di Pinochet sostenuta dai Chicago Boys, una medicina che vediamo somministrata con tutte le sue terribili conseguenze in Grecia.
Ma è davvero necessario? Davvero le imprese ed i Paesi alla ricerca di metodi per migliorare la loro competitività devono far regredire i diritti e gli stipendi dei lavoratori a livelli cinesi per essere competitivi? Davvero l'orizzonte sindacale "ideale" è quello del conservatorismo compassionevole alla George W. Bush di un Mario Monti (forse non a caso applaudito dalle gerarchie ecclesiastiche negli Usa come a Roma) che, come prima Berlusconi, attacca la Cgil di Susanna Camusso perché difende i diritti sindacali degli operai della Fiat e le tutele nazionali conquistate in decenni di lotte?
Sembrerebbe proprio di no, almeno a leggere un recente rapporto della Norwegian business school pubblicato su BI Business Review, secondo il quale l'agognato vantaggio competitivo si raggiunge attraverso l'uguaglianza.
Il rapporto norvegese (la Norvegia è uno dei Paesi più ricchi e con la più alta qualità della vita e della democrazia del mondo) evidenzia infatti che «I paesi da sempre più impegnati nel promuovere le pari opportunità hanno accesso anche a molto più talento rispetto ai Paesi che sono rimasti indietro su questo tema».
Gillian Warner-Søderholm, della BI Norwegian business school, spiega che «Il capitale umano - persone istruite e capaci - è un fattore fondamentale in termini di competitività e della capacità di affrontare i compiti chiave dell'organizzazione. In altre parole, puntare sulle pari opportunità rinforza il capitale umano, sia nel settore degli affari che in quello privato».
Warner-Søderholm, che ha lavorato insieme all'americano Andy Bertsch della Minot State university per scoprire connessioni tra i valori culturali di un Paese ed il e il grado di uguaglianza tra i sessi, continua: «Volevamo sottolineare i valori culturali che promuovono o ostacolano l'uguaglianza. Sapere questo rende possibile l'implementazione di misure nei settori giusti».
I ricercatori hanno lavorato basandosi su dati circa i valori culturali provenienti da oltre 62 Paesi e 17.000 lavoratori di vari settori industriali, presi dallo studio Global leadership and organizational behavior effectiveness (Globe), un progetto di ricerca multi-fase e multi-metodo che ha esaminato le interrelazioni tra la cultura sociale, la cultura organizzativa e la leadership organizzativa. «È importante - sottolineano - osservare che lo studio Globe ha indicato i seguenti valori culturali: collettivismo, comportamento deciso, orientamento alle prestazioni, orientamento verso le persone, uguaglianza di genere, distanza dal potere, orientamento al futuro, risoluzione dell'incertezza e contesto».
Warner-Søderholm e Bertsch hanno poi confrontato i principali valori culturali dei vari Paesi con i provvedimenti per l'uguaglianza tra i sessi approvati e li hanno mappati attraverso tre indici dell'uguaglianza internazionalmente riconosciuti: Gender inequality index (Gii), Women's economic opportunity index (Weo) e Global gender gap index (Gggi).
Ne è venuto fuori che «Le nazioni nelle quali l'uguaglianza tra i sessi è considerata importante (un valore culturale identificato come egualitarismo di genere) hanno buone posizioni nell'indice che misura le opportunità economiche delle donne». E' evidente che l'eguaglianza di genere nel lavoro tra uomini è donne è il contrario dell'aumento della disoccupazione femminile e giovanile, aumentata proprio con le ricette liberiste per "uscire" dalla crisi, ma lo studio dimostra anche un'altra cosa che demolisce le teorie turboliberiste dell'austerità applicata alla fasce più deboli e non a chi la crisi l'ha creata: «I paesi che lavorano per evitare l'incertezza con una buona pianificazione sono anche caratterizzati da un basso grado di disuguaglianza tra i sessi».
Warner-Søderholm evidenzia che «Nei Paesi scandinavi ci si preoccupa di più di pianificare per ridurre il rischio rispetto, per esempio, agli Stati Uniti. Questi Paesi hanno inoltre fatto di più per promuovere l'uguaglianza come misurata dagli indicatori internazionali».
I due ricercatori hanno constatato anche che «La maggior parte dei Paesi che sono preoccupati di pianificare il futuro (orientamento al futuro), sono ai primi posti per quanto riguarda il rafforzamento dell'uguaglianza delle opportunità e per metterla in pratica».
Sembra il contrario dell'incertezza assoluta e del darwinismo sociale messo in atto in Grecia e della demolizione "compassionevole" del welfare che si vorrebbe attuare con ancor maggiore impeto "competitivo" in Italia.