"Difendere i diritti umani in un contesto di occupazione significa essere persone sospette. Sospettate di fare altro da quello che è un lavoro legittimo, la cui importanza è riconosciuta a livello internazionale da atti, trattati, dichiarazioni riguardanti le attività degli human rights defenders". Ne sanno qualcosa tre Ong palestinesi, oggetto di un raid notturno delle IDF. Intervista al portavoce di Amnesty International Italia.

di Stefano Nanni

Nella notte di martedì 11 dicembre, a Ramallah, gli uffici di tre Ong palestinesi sono stati letteralmente messi a soqquadro.

Addameer - organizzazione di sostegno e supporto ai prigionieri palestinesi - , l'Unione dei comitati delle donne e la Rete delle Ong palestinesi son state oggetto di "un'irruzione brutale" da parte delle IDF, secondo il Palestinian Human Rights Organizations Council.

Un'irruzione durata un'ora, nella quale sono stati portati via 11 computer, un hard disk, due videocamere e due server, soldi contanti - circa 3000 shekels (600?) - e una carta di credito appartenente ad Addameer.

Amnesty International ha subito denunciato l'accaduto, definendolo "parte di una più ampia strategia aggressiva da parte dell'esercito israeliano nei confronti delle organizzazioni della società civile palestinese e delle organizzazioni per i diritti umani".

Amnesty International ha chiesto inoltre spiegazioni sulle motivazioni che hanno portato l'esercito a compiere una simile azione. La risposta non è ancora arrivata.

Non è la prima volta.

No, non è la prima volta, sia per quanto riguarda attacchi dell'esercito israeliano nei confronti di una Ong palestinese sia circa atteggiamenti intimidatori e persecutori nei confronti di organizzazioni o singoli che difendono i diritti umani.

Per esempio nel corso dell'anno c'erano stati, sempre a Ramallah, dei tentativi di chiudere anche delle radio. Ma sono le modalità con cui si sono svolti questi raid che fanno impressione, perché sono state da un lato sistematiche nella ricerca di materiali.

Dall'altro sono state anche caratterizzate da un certo accanimento, quasi fossero spontanee, nel senso di prendere poster appesi al muro, stracciarli, buttarli a terra. C'è stato un intento un po' devastatorio, ecco.

Furto?

Beh, sono stati portati via dei materiali che evidentemente dovevano essere portati via e poi sì, all'interno di queste sedi ci sono stati atti che possiamo definire di vandalismo. Questo ha riguardato anche l'ufficio dell'Unione dei comitati delle donne che si trova in un campo profughi (di Qaddura,ndr). Amnesty International è molto preoccupata per quel che è successo.

Cosa significa difendere i diritti umani in Palestina, ovvero sotto occupazione?

Significa rischiare, significa essere delle persone sospette. Sospettate di fare altro da quello che è un lavoro legittimo, la cui importanza è riconosciuta a livello internazionale da atti, trattati, dichiarazioni riguardanti le attività degli human rights defenders.

Significa rischiare di essere imprigionati per presunta minacciosità sulla base di prove non pubbliche, non disponibili alla difesa di queste persone - punto che chiama in causa il sistema israeliano di detenzione amministrativa che Amnesty International chiede ormai da anni che venga abolito.

Aggiungo che in una situazione di occupazione e spesso di conflitto, fare questo lavoro, che non è una scelta di una persona che assiste a un derby di calcio in una delle due opposte curve, bensì è la scelta di stare al centro del campo e parlare di diritti, rischia di essere una scelta impopolare da entrambi i lati.

Questo è ciò che Amnesty International verifica in ogni contesto di forte militarizzazione. Si tratta di persone ammirevoli, uomini e donne, che fanno una scelta importante, di avere una bussola magica, che è quella dei diritti umani, in un contesto dove questi ultimi sono radicalmente ignorati.

Tra queste scelte importanti c'è anche quella, fatta da Addameer e dell'Unione dei Comitati delle Donne, così come dai Comitati Popolari nei Territori Occupati, della non violenza come forma di resistenza. Quanto è difficile per un esercito rapportarsi a questo tipo di resistenza?

Sono linguaggi diversi, e la risposta potrebbe chiudersi qui.

Quello della resistenza non violenta è un linguaggio coraggioso per le ragioni di contesto che ho descritto prima. Io credo che parlare un linguaggio altro da quello della forza sia doloroso, difficile, una scelta di minoranza, ma una scelta che da i suoi frutti.

Credo anche che da un punto di vista tattico sia più facile trovare una lingua comune con chi, in Israele, pratica questa scelta. Abbiamo visto molti esempi, tra l'altro raccontati da molti film-makers sia israeliani che palestinesi, di questo linguaggio comune che viene parlato da non violenti di entrambe le parti.

Penso alle manifestazioni di Bil'in o di altri luoghi nei Territori Palestinesi Occupati? E' appunto un linguaggio che parla di diritti umani, non di forza.

Tra queste persone coraggiose c'è anche Abdul Latif Gaith, presidente di Addameer ma anche co-fondatore del Sindacato dei Giornalisti. Un'altra attività, quella del giornalismo, difficile da portare avanti, come testimonia l'ultima offensiva su Gaza?

E' così, certamente.

Intanto, ricordiamolo, Gaith ha questo bando, emesso a metà settembre e che durerà fino a marzo 2013, che limita la sua libertà di movimento: non può andare all'estero, ma soprattutto non può muoversi da Gerusalemme.

Il suo lavoro, che è un lavoro importante che lui fa per Addameer, di sostegno ai prigionieri, ma anche di ricerca e appoggio legale presuppone una libertà di movimento. Inoltre lui stesso è stato prigioniero secondo la detenzione amministrativa, ha 70 anni? prese insieme queste cose fanno pensare che nei suoi confronti ci sia un atteggiamento vessatorio.

Per quanto riguarda la situazione dei giornalisti in un contesto di conflitto e occupazione questa è molto precaria. Non c'è niente da fare: si dice che l'informazione sia la prima vittima della guerra. E i giornalisti vengono dopo, prima ci sono i civili, e poi ci sono coloro che cercano di raccontare ciò che sta succedendo ai civili. E a Gaza la situazione è molto più grave e delicata?

Nell'ultima escalation di violenza ci sono state diverse vittime civili: 103 palestinesi e 2 israeliani. Che prospettive ci possono essere per il conflitto israelo-palestinese in seguito al riconoscimento della Palestina come Stato osservatore non membro delle Nazioni Unite?

Non sono granché ottimista, devo dirlo.

Il voto dell'Assemblea Generale sulla Palestina è importante. E' un onore, per la Palestina, però è anche un onere. Un onere di assumere una responsabilità sul piano giuridico, qualora lo vorrà, rispetto all'adesione alla Corte Penale Internazionale (CPI).

Pensiamo all'occasione persa dopo ?Piombo Fuso', quando c'è stato un tentativo di fare giustizia in modo non partigiano con il rapporto della Commissione Goldstone.

Quest'ultimo alla fine è stato messo in un cassonetto, a causa di una volontà di più parti, comprese le due in questione, Israele e Hamas, di non fare nulla - cosa che ci dice che in quel rapporto c'erano scritte delle cose giuste.

Aver cestinato il rapporto Goldstone ha significato che il risultato di Piombo Fuso è stata un'impunità complessiva. Ciò vuol dire che chi, da un lato e dall'altro, ha compiuto atti contrari al diritto internazionale è rimasto allo stesso posto nel 2012.

Allora perché cambi qualcosa, senza diminuire l'importanza del voto del 29 novembre, occorre davvero accettare che ci sia una giustizia al di sopra delle parti, che anche per la recente operazione militare dovrebbe essere chiamata in causa.

L'impunità per Piombo Fuso ha significato che si sono ripetute le stesse cose, anche se in scala minore, riguardo quest'ultima operazione.

Quindi se ci sarà impunità anche stavolta potrebbero succedere esattamente nel 2013, nel 2014?

Quello che deve cambiare è l'approccio, ci vuole l'idea che si debba essere accountable, cioè responsabili per quello che si è fatto, cosa che vale anche per Hamas. E trovo anche un po' amaramente divertenti le pressioni fatte da alcuni Stati sulla delegazione palestinese, come se la giustizia fosse un oggetto di baratto: "Vi votiamo se voi non accedete alla CPI".

Il paradosso è che a me non sembra che ci sia tutta questa volontà da parte palestinese di farlo. Perché sbaglia chi pensa che se la Palestina accede alla CPI allora si chiamerebbe in causa solo Israele. C'è anche Hamas che deve rispondere di qualcosa: si tratta di crimini di guerra, il diritto internazionale li chiama così.

Infatti anche stavolta né Israele né Hamas hanno ammorbidito le proprie posizioni *. Inoltre lo scorso marzo Israele è uscita dallo Human Rights Council. Cosa deve fare la comunità internazionale per spingere i due attori ad un impegno convinto nella difesa di questi diritti?

Mostrarsi imparziale, perché l'imparzialità è la condizione per avere credito e fiducia, in modo da coadiuvare le parti intorno a un tavolo e farle discutere di pace, sicurezza, profughi, giustizia, diritti umani.

Poi occorrono pressioni forti sul piano diplomatico, ovviamente, ma convincenti su Israele per quanto riguarda gli insediamenti: sono illegali, sono contrari al diritto internazionale. E' una cosa che va detta, perché non possiamo ammorbidire l'uso dei termini giuridici.

Se dopo il voto dell'Assemblea Generale Israele ha reagito avviando nuovi programmi di espansione degli insediamenti un segnale importante è stato quello di alcuni Stati europei di convocare gli ambasciatori in segno di protesta.

Bisognerebbe capire perché una politica comune europea su questo punto non si trovi e si vada in ordine sparso. Ma quello che dovrebbe essere oggetto di forti pressioni è la fine del blocco su Gaza.

Per quanto qualcosa sia cambiata, rimane il fatto che il blocco ha delle conseguenze sui diritti economici e sociali della popolazione della Striscia, ne incattivisce gli umori, non gioca a favore della pace.

Se pensiamo che già prima dell'inizio dell'ultima operazione militare gli ospedali di Gaza erano in crisi per mancanza di medicinali possiamo immaginare come abbiano potuto operare sotto gli attacchi.

Il blocco deve terminare, gli insediamenti devono cessare ed essere smantellati, e i coloni dovranno un giorno essere trasferiti in Israele.

Amnesty International lo dice da sempre, e dice quanto afferma il diritto internazionale. Noi come organizzazione siamo solo un megafono di una posizione universalmente condivisa.

Portavoce di questa visione si fa anche l'Unione Europea, che nonostante consideri i diritti umani uno dei suoi principi cardine, continua a stipulare nuovi trattati internazionali con Israele, oltre che  con altri paesi del Mediterraneo che hanno problemi proprio con i diritti umani. Potrebbe fare di più l'UE?

Avviare una nuova stagione di cooperazione, cosa che riguarda anche l'Italia. Noi chiederemo a tutti i candidati alle prossime elezioni politiche di dire cosa pensano su una politica di cooperazione con i paesi del Mediterraneo basata sui diritti umani piuttosto che sul loro rifiuto, sulla loro violazione esplicita.

I segnali che arrivano dall'Europa, Italia inclusa, riflettono ancora una forma di cooperazione in cui i diritti umani sono assenti. Abbiamo degli esempi macroscopici di accordi tra Italia e Libia, per non parlare di altri.

Qualsiasi accordo che l'UE firma con paesi che non rispettano i diritti umani è criticabile dal nostro punto di vista.

Se l'Unione Europea non vuole considerare questo Nobel per la Pace come un premio alla carriera che dai a un anziano regista per i film che ha fatto in cinquant'anni, anche se gli ultimi non gli sono riusciti bene, ma vuole intenderlo come uno stimolo allora si deve impegnare seriamente.

Lunedì 10 dicembre la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ha compiuto 64 anni. A che punto siamo in Medio Oriente?

Siamo messi male? Siamo messi male perché non c'è l'applicazione di quei 30 articoli presi complessivamente, poi è vero che alcuni sono garantiti.

Ma se prendiamo ad esempio i diritti civili e politici vediamo che quanto alle restrizioni alla libertà di movimento, il diniego a un processo equo, gli attacchi e le intimidazioni nei confronti dei difensori dei diritti umani sono una pratica quotidiana in tanti paesi del Medio Oriente.

E se consideriamo i diritti economici e sociali qualunque dato in nostro possesso ci dice che ci sono profonde sacche di povertà, risorse distribuite non equamente o trattenute.

Penso a quelle idriche ad esempio tra israeliani e palestinesi, penso ai milioni di egiziani che vivono in insediamenti precari che vengono smantellati continuamente per essere trasferiti in abitazioni ancora più misere e i cui diritti non sono garantiti in pieno neanche nella nuova costituzione egiziana.

Oppure penso invece alla parte occidentale, in Maghreb, alle proteste che ci sono state a Siliana che hanno provocato 300 feriti la scorsa settimana.

Penso a quelle persone che la primavera non l'hanno mai vista e per le quali è sempre pieno inverno.

Credo che per il Medio Oriente, così come per buona parte della popolazione di questo pianeta, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è una bella idea di come dovrebbe essere il mondo, ma rimane qualcosa che si sogna ogni notte e che svegliandosi non si realizza.
 
*Khaled Meshal, storico leader di Hamas, ha dichiarato di non riconoscere il diritto all'esistenza di Israele, mentre lo Stato ebraico ha autorizzato la costruzione di nuove colonie oltre ad aver bloccato i fondi destinati ai palestinesi.

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