Paolo Venturi* e Flaviano Zandonai**
Un emendamento alla legge di stabilità rivoluziona le imprese sociali. Quelle di origine diversa dal no profit potranno distribuire utili ai soci. Per alcuni si tratta dell'ingresso dell'economia capitalistica in campo sociale. In realtà si tratta della possibilità di attrarre capitali privati. Ma in maniera maldestra
Un comma che è una scossa tellurica per l'impresa sociale. Tra le pieghe di una legge di stabilità da approvare in fretta e furia è apparso un emendamento che introduce una modifica sostanziale alla norma sull'impresa sociale. Una legge, quest'ultima, approvata ormai sette anni fa ma che ha avuto un percorso applicativo a dir poco complicato e una promozione inesistente. Risultato: le imprese sociali ex lege sono solo 400 a fronte di dati di realtà che dicono di 13mila imprese sociali di fatto (le cooperative sociali) e di un potenziale pari a quasi centomila organizzazioni (sia non profit che lucrative) coinvolgibili in percorsi di imprenditorialità che producano, come "ci ricorda l'Europa", un esplicito e rendicontabile "impatto sociale".
Ma torniamo all'emendamento incriminato. Prevede la possibilità per le imprese sociali di origine diversa dal non profit (quindi costituite a partire da modelli societari come Srl, Spa, ecc.) di distribuire utili ai soci e in particolare di distribuire l'utile netto in quota non superiore al 50% a favore di altre imprese for profit ed enti pubblici soci dell'impresa sociale. Una scelta dirompente che le espressioni più storicizzate del settore (le federazioni della cooperazione sociale, il forum del terzo settore) stigmatizzano, perché considerano la modifica di legge il cavallo di troia per l'ingresso in forze dell'economia capitalistica in campo sociale.
È davvero così? A una prima lettura l'emendamento sembra figlio della cosiddetta social entrepreneurship che sostiene un approccio all'imprenditoria sociale meno vincolato a principi giuridico normativi e a settori di attività e in grado di attrarre capitali privati che possano veder remunerato il loro investimento. Una posizione rilevante che mira ad allargare lo spettro dell'imprenditoria sociale oltre le nicchie dove tradizionalmente opera. Il problema è che l'emendamento risolve male la questione, rischiando di cambiare radicalmente i connotati di questa forma d'impresa.
Per dirla con le parole dell'economista Stefano Zamagni, l'impresa sociale è un'organizzazione inclusiva, rispetto non solo ai beneficiari delle attività ma anche al valore economico e sociale che produce. Un modello diverso dall'economia for profit orientata invece a estrarre valore per distribuirlo, in quote massimizzate, agli azionisti. Un punto di equilibrio? Prevedere la distribuzione di utili e la remunerazione di capitale, ma introducendo un tetto. Un "cap" come dicono gli inglesi, e come già succede nelle cooperative italiane, non per amore di non profit, ma per valorizzare l'impresa sociale stessa come un bene comune, incentivando sì gli investimenti, ma quelli che riconoscono il carattere meritorio di ciò che produce. Questioni importanti, che non si risolvono con un emendamento in zona Cesarini.
*Aiccon
**Euricse, Iris Network
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