Immigrati e disabili.
Almeno il 20 per cento dei piccoli portatori di handicap proviene da constesti migratori. Ma il nostro sistema non considera questa specificità. Ne parliamo con Caterina Martinazzoli, ricercatrice che si è occupata della questione.
Una fiaba africana narra di come un uccello enorme chiamato Calao volesse mangiarsi tutti gli uomini e di come un ragazzo disabile riuscì ad ucciderlo. Con una astuzia salvò il suo villaggio e obbligò l'uccello a restituire tutto ciò che aveva inghiottito, prima di tagliargli la testa. La morale è che tutti gli uomini, indipendentemente dalle loro condizioni, possono dare un contributo alla società a cui appartengono. Caterina Martinazzoli, autrice di Due volte speciali. Quando gli alunni con disabilità provengono da contesti migratori (Franco Angeli, 2012), utilizza questo racconto per introdurci a un tema delicato e rimosso: gli aspetti educativi e didattici che coinvolgono i bambini con disabilità, comprendendo anche le dinamiche migratorie e la rappresentazione culturale di disabilità.
Chi sono gli alunni due volte speciali?
«Sono quelli con disabilità e provenienti da contesti migratori (nati all'estero o figli di migranti). Devono misurarsi con le sfide relative al loro handicap e con quelle che riguardano l'incontro con una cultura e una lingua nuova».
Quanti sono? Disponiamo di dati attendibili?
«Purtroppo no, perché il tema è studiato solo dal 2006 e ancora molti enti locali non riescono a fornire dati analitici. A livello nazionale si stima una percentuale del 15/20 per cento rispetto al totale dei bambini diversamente abili».
L'esperienza migratoria che impatto ha su questi bambini?
«Molto forte. Purtroppo la maggior parte degli insegnanti non sembra tenerne conto. La mia ricerca e anche altre, realizzate per esempio in Francia (paese sicuramente più avanzato del nostro per quanto riguarda l'etnopsichiatria e la psicologia transculturale) evidenziano che, in molti casi, l'esperienza migratoria può causare dei traumi specifici che vanno ad aggravare e complicare una situazione già critica in partenza, come può essere quella di un bambino con un ritardo mentale o con un problema fisico».
Nel suo libro si parla molto delle difficoltà dovute a differenti concezione delle malattie. Quale approccio potrebbe creare un canale di comunicazione tra le differenti culture?
«Quando un genitore crede che il proprio figlio con autismo, per citare uno degli esempi del libro, sia un bambino speciale perché in contatto preferenziale con gli antenati, l'insegnante deve accogliere questa credenza, valorizzare ciò che è possibile valorizzare e cercare di andargli incontro, spiegando il proprio progetto educativo che ha tutt'altra base. Per questo è necessario l'intervento del mediatore linguistico culturale. In modo che si possano creare dei ponti di comunicazione per "co-costruire", cioè per costruire insieme, un intervento educativo che tenga conto anche delle aspettative e delle credenze dei genitori».
I docenti sono a suo avviso preparati ad affrontare questo tipo di tematiche?
«A me sembra di no. È un argomento piuttosto nuovo per gli insegnanti i quali tendono a chiudersi nei confronti della famiglia, là dove c'è la richiesta di utilizzare, ad esempio, dei particolari metodi, prima di fare una valutazione presso la neuropsichiatra. Per questo una formazione multiculturale sull'approccio alla disabilità sarebbe molto utile. Si parte quindi dalla conoscenza dell'argomento per andare verso un'apertura, che in etnopsichiatria e psicologia transculturale, si chiama decentramento e che consiste nel provare a mettersi nei panni degli altri e delle loro rappresentazioni culturali, per capire e trovare un terreno comune su cui poter lavorare».
Quale ruolo hanno oggi i mediatori culturali?
«Possono essere molto utili per la co-costruzione del progetto educativo del bambino. Ma anche per loro ci vorrebbe una formazione adeguata. Quando si lavora con le disabilità la sinergia di rete è fondamentale: c'è bisogno della collaborazione con gli operatori sanitari, educativi e logopedisti. Ovviamente, nel caso di bambini migranti è necessaria una sinergia ancora più forte con la famiglia, e il mediatore linguistico e culturale si trova a rivestire un ruolo fondamentale per la comprensione reciproca».
Cosa dovrebbero fare i genitori di bambini due volte speciali rispetto alla lingua? Insegnare la propria o optare per l'italiano?
«Gli studi attuali sostengono che sia molto importante per i bambini far mantenere la lingua d'origine e quella parlata in famiglia perché è la lingua del cuore e dell'intimità. Con i bambini che hanno deficit intellettivi questo può risultare complicato e, infatti, riguardo a questo, tra gli esperti non c'è accordo. C'è chi dice che un bambino con ritardo mentale può comunque, se esposto a entrambe le lingue fin da molto piccolo, apprenderle entrambe e con beneficio. C'è chi, al contrario, ritiene che questo possa essere al disopra delle sue possibilità e rappresentare un ulteriore fattore di stress e consiglia, per questo, di optare per la lingua del paese in cui si vive».
Di cosa ci sarebbe bisogno?
«In Italia oggi la situazione è piuttosto critica. Questo vale per tutti i bambini disabili e, a maggior ragione, per quelli che provengono da contesti migratori. A mio parere, le azioni fondamentali perché la scuola possa migliorare sono, a un livello primario, un'azione educativa e didattica che vada a fare una lettura multidimensionale del bambino. Che significa osservare il bambino in modo multidimensionale, tenendo conto di vari "spazi": quelli che formano la sua identità culturale (da dove viene, che lingua parla?); quelli di abilità (cioè le caratteristiche mentali, fisiche ed emotive); quelli di contesto (le barriere fisiche e no che accentuano la sua disabilità). Rispetto a questi spazi vanno evidenziati dei facilitatori appropriati e specifici. Una lettura di questo tipo permette di creare un intervento educativo mirato. E poi sarebbe davvero importante una formazione e autoformazione multiculturale alla disabilità per gli insegnanti, accompagnata da risorse e strumenti adeguati per la formazione dei mediatori culturali e per nuovi protocolli osservativi. Anche la questione della diagnosi è molto importante».
E a livello più ampio?
«Ci vorrebbe una legislazione adeguata e specifica. La nostra legislazione, infatti, fa riferimento o alle disabilità oppure all'appartenenza culturale. Non ci sono leggi specifiche che uniscano i due aspetti. È auspicabile che il Ministero dia un indirizzo omogeneo sulle modalità d'approccio culturale alle disabilità. Così che l'intervento dell'insegnante possa essere più specifico ed efficace».
Francesca Materozzi