Nel 2050 i profughi ambientali potrebbero salire da 6 a 250 milioni.

Maurizio Gubbiotti, responsabile dipartimento internazionale Legambiente per greenreport.it

Si prosegue a trattare a Doha, con tante difficoltà ma soprattutto sotto il peso di un gap troppo grande tra impegni presi (o che si annuncia di voler prendere) e ciò che sarebbe necessario per la salvezza del pianeta.

Gli accordi delineati alla scorsa Conferenza di Durban, che ci hanno portato in questo luogo dove si respira solo petrolio e gas, prevedono che al 2015 si firmi un accordo che entri poi in vigore nel 2020, e che permetta di allargarsi oltre i firmatari di Kyoto, e comprendere anche Usa, Brasile, Cina, India.
Risulta indispensabile pertanto che l'accordo per Kyoto 2 sia raggiunto almeno per la coalizione dei volenterosi che rappresenta il 15% delle emissioni totali, ma questo non annullerebbe la distanza che esiste tra la previsione delle emissioni di gas serra al 2020 di 52-57 Gton e il tetto che gli scienziati ci dicono non si debba superare: 44 Gton.

È proprio per questo che i Paesi europei più avanzati stanno lavorando per far accogliere una proposta di mediazione brasiliana già messa in campo, che impegna a  trovare entro i prossimi due anni l'intesa per individuare le azioni che colmino quel gap. Da segnalare che dopo gli anni del governo Berlusconi, l'Italia sembra voler essere più protagonista su tutti questi temi, ma che soprattutto l'Europa oggi potrebbe uscire da Doha con un profilo molto più credibile e apprezzabile.

Nel frattempo quel gap di cui sopra è costantemente presente nelle relazioni e negli interventi che si susseguono, perché sono circa 6 milioni l'anno le persone costrette a lasciare il proprio territorio a causa dei cambiamenti climatici. Un dato che per il 2050, secondo le stime dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), potrebbe riguardare 200/250 milioni di persone. Questo è il profilo dell'emergenza umanitaria dei profughi ambientali, nuovi migranti costretti a fuggire da desertificazione, inondazioni e effetti del riscaldamento globale, ai quali si aggiungono i tanti sfollati per terremoti o decisioni politiche che impongono la costruzione di dighe o di impianti industriali che comportano la distruzione di centri urbani o dei terreni e degli ambienti di vita e lavoro.

Nel 2011 i danni ambientali hanno colpito tutti i continenti provocando vittime umane e disastri economici, che secondo le statistiche dell' International Disaster Database (Em-Dat) si contano in 302 disastri con circa 206 milioni di persone colpite e una stima di danni economici pari a 380 miliardi di dollari. Solamente i danni causati dal terremoto e lo tsunami in Giappone hanno causato danni economici di 20 miliardi circa.

Ed è per questo che il capitolo delle risorse economiche anche in questa Cop è molto presente, e non solo per ciò che riguarda gli stanziamenti promessi e non mantenuti per il Green Fund, ma anche per il ruolo dei privati nella lotta al cambiamento climatico nei prossimi anni.

Secondo il report della Climate Policy Iniziative, "The Landscape of Climate Finance 2012", per avere adeguate risorse da dedicare al solo settore energetico per una sua transizione low carbon, servirebbero oltre 36mila miliardi di dollari entro il 2050, quasi la metà dell'attuale Prodotto interno lordo mondiale, con uno stanziamento medio di 1000 miliardi di dollari all'anno. La Cina, Paese che sta facendo la differenza nello sviluppo della green economy, nel suo 11° Piano quinquennale 2006-2011 ha investito 142 miliardi di dollari per migliorare l'efficienza energetica delle sue produzioni, dei quali l'83% derivanti da fonte privata.

Non è indifferente, quindi, chi gestirà il Green Found, ma la discussione rimane piuttosto lontana da una conclusione, oscillando tra un "governing body" sganciato dalle Nazioni Unite - con presenza all'interno di rappresentanti del privato - ad un soggetto subordinato alla Convenzione Quadro in modo da garantire coerenza tra strategie di investimento ed esigenze della comunità internazionale.

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