Si apre la seconda settimana di negoziati della 18a Conferenza delle Parti Onu sul cambiamento climatico. Oltre diciassettemila delegati si incontreranno fino al 7 dicembre prossimo a Doha, capitale del Qatar uno dei principali produttori, ed esportatori, di gas naturale al mondo...
Anni di incontri, migliaia di chilometri percorsi per arrivare oggi, alla scadenza del primo periodo di impegni del Protocollo di Kyoto, con molte promesse ma poche certezze. Nonostante l'Unione Europea sia riuscita a tagliare almeno in parte le emissioni di gas climalteranti, grazie anche ad un crollo dei consumi dovuto alla crisi ed alla chiusura degli impianti iperinquinanti nei nuovi membri dell'Est, la CO2 globale è cresciuta senza sosta. Secondo il rapporto 2012 "Trends in global CO2 emissions" dell'Agenzia dell'ambiente olandese le emissioni sono cresciute nel 2011 di un ulteriore 3%, raggiungendo il dato record di 34 miliardi di tonnellate. I principali inquinatori sono la Cina, con un 29% della "torta", gli Stati Uniti (16%), la UE a 27 (11%), l'India (6%), la Russia (5%) ed il Giappone (4%). E sebbene le emissioni procapite cinesi abbiano raggiunto quelle europee (7.2 tonnellate vs 7.5 per l'UE) gli Stati Uniti rimangono campione irraggiungibile con oltre 17 tonnellate all'anno a testa.
Davanti alla richiesta di raggiungere il picco di emissioni nel 2015 e poi decrescere, per poter avere la relativa sicurezza di non superare i 2°C di aumento della temperatura media, da molti indicato come un punto di non ritorno molto rischioso, la comunità internazionale rischia di perdersi in tattiche diplomatiche.
Il 31 dicembre di quest'anno scade il periodo 2008-2012 del Protocollo di Kyoto a cui dovrebbe seguire, come da accordi, un secondo periodo di impegni per i Paesi industrializzati. Qui casca (il primo) asino. Diversi Paesi come Russia, Canada, Stati Uniti ed ultimamente la Nuova Zelanda hanno dichiarato di non avere nessuna intenzione di aderire, ma la non accettazione di Kyoto significa mettere in forse l'accordo di Durban, che prevedeva un accordo globale tra tutti i principali inquinatori da concludere nel 2020, ma da negoziare già dal 2015.
A questo si aggiunge il dramma del Green Fund, promesso e deciso a Cancun nel 2010, ma nei fatto non ancora operativo. Dei 30 miliardi di dollari del primo finanziamento "fast", che avrebbe dovuto coprire il biennio 2010-2012 si è visto a malapena il 10%, usato sostanzialmente per creare e far funzionare la burocrazia del fondo, con sede in Corea.
Sarebbe dovuto essere il primo passo di un impegno sostanziale dei Paesi industrializzati, che avrebbe dovuto accompagnare politiche di adattamento e mitigazione nei Paesi in via di sviluppo fino al fondo vero e proprio che nel 2020 avrebbe dovuto raccogliere 100 miliardi di dollari all'anno. Ma davanti alle lentezze della diplomazia internazionale diversi Paesi, tra cui Cina, il G77 ed i Paesi insulari dell'AOSIS, stanno chiedendo un impegno intermedio di 60 miliardi di dollari all'anno entro il 2015. Con il rischio che senza un accordo sulle finanze possa saltare il banco.
Ma anche con i tavoli al loro posto, e con un negoziato che continua, il dubbio dell'inefficacia del percorso Onu è sempre più concreto. La ricerca scientifica, ma ancora di più i sistemi naturali, non rispondono alle tattiche ma a fattori biologici e geofisici. Che parlano anche di tipping point, punti di non ritorno, che se superati portano ad una sorta di passaggio di stato in cui diventa quasi impossibile tornare indietro in tempi ragionevoli. La politica ha deciso che questo passaggio di stato scatta a 450 parti per milione di CO2, o all'aumento di 2°C della temperatura media, ma i fenomeni estremi li stiamo già vivendo.
Il supertornado Sandy negli Stati Uniti è costato oltre 60 miliardi di dollari. Le alluvioni e il tornado tarantino hanno aumentato il numero di morti e di danni per cause atmosferiche e climatiche nel nostro Paese. Che nell'ultima analisi di Germawatch sul rischio climatico ha raggiunto le parti alte della classifica.
Alberto Zoratti